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PREMESSA

Il dibattito sulle competenze avanzate degli infermieri, acceso dal contenuto dell’art. 1, comma 566 della L. 190/2014[1] (Legge di stabilità 2015), impone una riflessione sull’attuale definizione del ruolo, delle competenze, delle relazioni professionali, della responsabilità dei professionisti sanitari e sul contesto organizzativo entro il quale gli attori del processo clinico-assistenziale sono costretti ad operare.

L’evoluzione della professione infermieristica si scontra, infatti, con un problema irrisolto: il “campo proprio” di attività e di responsabilità dell’infermiere, come definito dall’attuale sistema di abilitazione all’esercizio professionale, non è mai divenuto “campo esclusivo”.

L’ostacolo principale è costituito dall’insufficienza delle dotazioni organiche, in particolare del c.d. personale di supporto, che ha costituito per anni il principale fattore frenante, impedendo che si affermasse una piena consapevolezza del “nuovo” ruolo ritagliato dal legislatore.

Sarebbe necessario, dunque, un cambio di rotta che inverta il processo di marginalizzazione delle professioni sanitarie peraltro assolutamente contrastante con la mission delle aziende sanitarie che, solo formalmente (negli Atti aziendali), rappresentano l’intenzione di valorizzare le competenze.

BREVI CENNI SULLE MANSIONI DEL DIPENDENTE PUBBLICO O APPARTENENTE AL SETTORE DEL PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO

La disciplina delle mansioni del dipendente pubblico è contenuta nell’articolo 52 del decreto legislativo 165/2001.

Il testo vigente prevede che 1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione. 1-bis. I dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti assimilati, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali. Le progressioni all’interno della stessa area avvengono secondo principi di selettività, in funzione delle qualità culturali e professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito. Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni costituisce titolo rilevante ai fini della progressione economica e dell’attribuzione dei posti riservati nei concorsi per l’accesso all’area superiore. 2. Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore: a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4; b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell’assenza per ferie, per la durata dell’assenza. 3. Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni. 4. Nei casi di cui al comma 2, per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore. Qualora l’utilizzazione del dipendente sia disposta per sopperire a vacanze dei posti in organico, immediatamente, e comunque nel termine massimo di novanta giorni dalla data in cui il dipendente è assegnato alle predette mansioni, devono essere avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti. 5. Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l’assegnazione risponde personalmente del maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave. 6. Le disposizioni del presente articolo si applicano in sede di attuazione della nuova disciplina degli ordinamenti professionali prevista dai contratti collettivi e con la decorrenza da questi stabilita. I medesimi contratti collettivi possono regolare diversamente gli effetti di cui ai commi 2, 3 e 4. Fino a tale data, in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può comportare il diritto ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore”.

Il mancato riferimento alle mansioni effettivamente svolte può divenire lo strumento per assegnare al lavoratore compiti diversi rispetto a quelli che formano il cd. bagaglio professionale ossia quelli che connotano la professionalità effettivamente acquisita nel tempo.

Secondo parte della giurisprudenza, infatti, (cfr. Cass. sez. lav. nn. 11835/2010 e 7106/2014) condizione necessaria e sufficiente perché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione delle parti sociali in tal senso, e ciò, indipendentemente dal cd. bagaglio professionale del lavoratore; si è ritenuto, infatti, che il riferimento al concetto di professionalità concretamente acquisita, necessariamente soggettivo, non sia conciliabile con l’esigenza di certezza e di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, che ancora, anche dopo la modifica dell’art. 52 cit., caratterizza il rapporto di lavoro pubblico.

Tale insuperato schematismo si pone agli antipodi rispetto al processo, ripetutamente sbandierato dal legislatore, di valorizzazione delle professionalità e del merito che condiziona non soltanto l’attribuzione degli incarichi ma gli stessi trattamenti economici accessori.

Sotto questo profilo l’introduzione del concetto di “equivalenza nell’ambito dell’area di inquadramento” per quanto costituisca un passo avanti rispetto al precedente di “equivalenza nell’ambito della classificazione del personale prevista nei contratti collettivi”, non tutela completamente l’individualità del patrimonio professionale del dipendente e può certamente costituire una giustificazione di iniziative datoriali che di fatto quell’individualità disconoscono.

In altre decisioni, la Cassazione ha posto l’accento sull’imprescindibile rilievo del patrimonio professionale specialistico del lavoratore pubblico.

In particolare, la Suprema Corte (cfr. Cass. civ, sez. lav. 09.09.2008, n. 22880), chiamata a pronunciarsi sul caso di un primario di chirurgia generale assegnato ad un pronto soccorso (con pari incarico), ha affermato che risulta corretta l’affermazione del giudice del merito secondo cui rientra nella comune esperienza, senza bisogno di prove (art. 115 c.p.c., comma 2), che per l’attività del chirurgo è essenziale un’adeguata manualità, e che la relativa professionalità decade nisi eam exerceas”.

Come si evince dallo “svolgimento del processo” riassunto nel corpo dell’anzidetta pronuncia, in fatto era stato accertato che “in conseguenza del trasferimento l’appellato non ha svolto attività di chirurgo per oltre un anno, dall’8 luglio 1998, data del trasferimento, al 2 agosto 1999 quando è stato di nuovo adibito a mansioni di chirurgo in esecuzione di ordinanza ex art. 700 c.p.c.. Tale inattività è stata pregiudizievole della sua professionalità di chirurgo, che, come quella dei musicisti e gli sportivi, necessita di una continua pratica”.

Svolgere saltuariamente e per necessità organizzative mansioni proprie di un profilo inferiore, evidentemente, non costituisce violazione dell’articolo 52 del D.lgs. 165/2001 e rientra nei compiti istituzionali e nei doveri di ufficio.

La cassazione di quella parte dell’art. 52 che consentiva l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, sebbene soltanto occasionalmente e, ove possibile, con criteri di rotazione, salutata come un passo in avanti verso la tutela della professionalità del lavoratore, si è prestata, infatti, a una lettura restrittiva in nome di una gestione flessibile del rapporto di lavoro (la stessa per intenderci, introdotta con l’art. 2103 c.c.).

Lettura che, ad avviso di chi scrive, contrasta però con la Costituzione (art. 35[3]) e la norma che, a livello civilistico, definisce la protezione che deve essere garantita ad ogni lavoratore (art. 2087[4]), da cui si evince che l’evoluzione professionale e la tutela della personalità morale del lavoratore costituiscono confini invalicabili.

IL RUOLO E LE COMPETENZE DEI DIRIGENTI MEDICI SECONDO LA NORMATIVA VIGENTE

Costituisce fatto noto che non esiste una definizione generale dell’attività medica: come ha correttamente osservato Luca Benci[5] “alcune attività ed alcuni processi che la professione medica svolge sono intrinsecamente medici, altri sono consuetudinari e di organizzazione”.

Non è un caso che le competenze mediche non siano indicate dalla legge “se non in modo residuale”.

E’ opinione condivisa, tuttavia, che le funzioni di direzione e organizzazione nell’ambito della diagnosi, impostazione terapeutica, prevenzione e riabilitazione rientrino nell’area delle competenze mediche.

Così ad esempio l’art. 18 del D.lgs. 17 agosto 1999, n. 368 (Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE), nel testo attualmente vigente: 1. La formazione di medico chirurgo comprende: a) adeguate conoscenze delle scienze sulle quali si fonda l’arte medica, nonché una buona comprensione dei metodi scientifici, compresi i principi relativi alla misura delle funzioni biologiche, alla valutazione di fatti stabiliti scientificamente e all’analisi dei dati; b) adeguate conoscenze della struttura, delle funzioni e del comportamento degli esseri umani, in buona salute e malati, nonché dei rapporti tra l’ambiente fisico e sociale dell’uomo ed il suo stato di salute; c) adeguate conoscenze dei problemi e delle metodologie cliniche atte a sviluppare una concezione coerente della natura delle malattie mentali e fisiche, dei tre aspetti della medicina: prevenzione, diagnosi e terapia, nonché della riproduzione umana; d) adeguata esperienza clinica acquisita sotto opportuno controllo in ospedale”.

Così esplicitante il codice di deontologia medica: art. 3, comma 2: “Al fine di tutelare la salute individuale e collettiva, il medico esercita attività basate sulle competenze, specifiche ed esclusive, previste negli obiettivi formativi degli ordinamenti didattici dei corsi di laurea in medicina e chirurgia e odontoiatria e protesi dentaria, integrate e ampliate dallo sviluppo delle conoscenze in medicina, delle abilità tecniche e non tecniche connesse alla pratica professionale, delle innovazioni organizzative e gestionali in sanità, dell’insegnamento e della ricerca; comma 3: La diagnosi a fini preventivi, terapeutici e riabilitativi è una diretta, esclusiva e non delegabile competenza del medico e impegna la sua autonomia e responsabilità; art. 13:
“La prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico”; art. 66: “Il medico, si adopera per favorire la collaborazione, la condivisione e l’integrazione fra tutti i professionisti sanitari coinvolti nel processo di assistenza e cura, nel rispetto delle reciproche competenze, autonomie e correlate responsabilità. Il medico sostiene la formazione interprofessionale, il miglioramento delle organizzazioni sanitarie nel rispetto delle attività riservate e delle funzioni assegnate e svolte e l’osservanza delle regole deontologiche”.

Le stesse Linee guida dell’Emilia Romagna adottate “per uniformare l’attività degli infermieri sui mezzi di soccorso attraverso l’armonizzazione dei protocolli avanzati di impiego del personale infermieristico adottati ai sensi dell’art. 10 D.P.R. 27 marzo 1992 per lo svolgimento del servizio di emergenza sanitaria territoriale 118”, giunte al culmine di un aspro scontro tra medici e infermieri sulle reciproche competenze, non pongono minimamente in discussione quali siano le responsabilità dei diversi operatori sanitari.

Al riguardo si dovrà, infatti, considerare come tutte le procedure aziendali devono essere “adottate e aggiornate a cura del medico responsabile del Servizio di emergenza” e che, in ogni caso, siano fatte “salve le responsabilità, le sfere di autonomia decisionale e le competenze organizzative dei dirigenti dei servizi nella redazione dei protocolli”.

Il precipitato pratico di una procedura che non pone minimamente in discussione il fatto che diagnosi e prescrizione siano atti medici è costituito dalla previsione che “l’applicazione dei protocolli avanzati debba essere sempre accompagnata dall’allertamento dei medici di riferimento dei mezzi medicalizzati” e dal fatto che “tutti i contatti fra l’infermiere del mezzo di soccorso e il medico di riferimento debbano essere tracciati”.

Nell’ambito della dirigenza pubblica i dirigenti del SSN assumono una peculiare connotazione derivante dalla forte incidenza della loro attività sugli interessi dell’utenza a garanzia di un bene primario, quale quello della salute (art. 32 Cost.).

Non altrimenti può spiegarsi la complessa e articolata disciplina del loro rapporto di lavoro che evidenzia una vocazione inequivocabile alla specialità della dirigenza sanitaria, e in particolare di quella medica.

In particolare, la disciplina del rapporto di lavoro si ricava dal coordinamento tra le norme di cui al d.lgs. 2001, n. 165 e quella speciale di cui al d.lgs. 1992, n. 502[6] che demanda alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei diversi profili del rapporto di lavoro.

Il tratto che meglio evidenzia siffatta specialità sta nell’attribuzione della qualifica dirigenziale non soltanto a figure che svolgono un ruolo datoriale e manageriale ma anche a lavoratori subordinati privi dell’effettiva titolarità di poteri direttivi, gestionali e decisionali, ma ciò nondimeno inquadrati come dirigenti per via dell’elevato contenuto tecnico-professionale della prestazione richiesta proprio in vista della tutela del bene primario della salute che costituisce la stella polare del SSN.

Qualifica che, per meglio intendere il senso della specialità, nel settore privato compete soltanto al prestatore di lavoro che agisce come alter ego dell’imprenditore e che, sia pure nell’ambito delle direttive programmatiche da questi impartite, è investito del potere discrezionale di imprimere un indirizzo/orientamento al governo dell’azienda.

IL RUOLO E LE COMPETENZE DEGLI INFERMIERI SECONDO LA NORMATIVA VIGENTE

E’ possibile individuare temporalmente il punto di partenza dell’evoluzione della professione infermieristica con il D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502 che, nell’adeguare l’impianto del Servizio Sanitario Nazionale (sorto ex L. 833/78), ha trasferito la formazione infermieristica dalla sede regionale a quella universitaria, statuendo che la ridefinizione del profilo professionale dell’infermiere e dell’infermiere pediatrico dovesse avvenire attraverso uno specifico decreto ministeriale (Ministero della sanità, (attualmente Ministero della salute).

Con il D.M. 14/09/1994 n. 739[7] recante titolo “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere”, veniva, dunque, completamente ridefinito il profilo professionale dell’infermiere, individuato quale “responsabile dell’assistenza generale infermieristica (art. 1, comma 1); era altresì precisato che “l’assistenza infermieristica, preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa, deve considerarsi “di natura tecnica, relazionale, educativa” (art. 1, comma 2).

Nello specifico l’infermiere (art. 1, comma 3): “a) partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi; c) pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico; d) garantisce   la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali; f) per l’espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto g) svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale”.

L’infermiere è stato chiamato a contribuire alla formazione del personale di supporto (cfr. infra) e a concorrere direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca (art. 1, comma 4).

Il decreto ministeriale, proprio in considerazione della riconosciuta professionalizzazione del ruolo e della conseguente necessità di “fornire agli infermieri di assistenza generale delle conoscenze cliniche avanzate e delle capacità che permettano loro di fornire specifiche prestazioni infermieristiche”, indicava (art. 1, comma 5) anche le aree della formazione infermieristica post-base[8] per la pratica specialistica, e precisamente: a) sanità pubblica: infermiere di sanità pubblica; b) pediatria: infermiere pediatrico; c) salute mentale-psichiatria: infermiere psichiatrico; d) geriatria: infermiere geriatrico; e) area critica: infermiere di area critica.

Aree soggette evidentemente a una continua evoluzione perché strettamente legate alle “esigenze emergenti dal Servizio sanitario nazionale” che avrebbero certamente (e tale potenzialità veniva espressamente normata nel comma 6) suggerito nel tempo l’individuazione (sempre con decreto ministeriale) di “ulteriori aree richiedenti una formazione complementare specifica”.[9]

L’intervento legislativo rappresentava un taglio netto rispetto al sistema mansionariale del D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225 che definiva in modo oltremodo rigido le competenze infermieristiche attraverso una mera elencazione di compiti (art. 2), circoscrivendo la liceità dell’agire professionale unicamente alle attività ivi ricomprese, con conseguente inclusione di qualsiasi diversa attività nel campo della professione medica.

Il nuovo impianto normativo, che cancellava di fatto[10] il carattere ausiliario dell’attività infermieristica (e delle altre professioni sanitarie) attraverso l‘introduzione di un modello flessibile e aperto, veniva ulteriormente perfezionato con la L. 26.02.1999, n. 42 “Disposizioni in materia professioni sanitarie”.

Attraverso il nuovo intervento, il legislatore precisava (art. 1 comma 2) che “il campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie [..] “è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di diploma universitario e di formazione post base nonché degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali”.

Il campo proprio dell’attività e della responsabilità dell’infermiere (come del resto quello delle altre professioni sanitarie) veniva dunque radicalmente ridefinito, con la conseguente revisione dei rapporti/equilibri all’interno delle (diverse) componenti professionali che partecipano alla risposta del bisogno di salute della persona assistita.

Da allora, infatti, il sistema di abilitazione all’esercizio professionale, per espressa previsione normativa, si sviluppa su due piani confinati entro i limiti stabiliti, anch’essi, legislativamente.

I due piani sono costituiti da un atto di normazione secondaria (per l’appunto il decreto ministeriale cit. che definisce il profilo professionale e recepisce il relativo ordinamento didattico) e da un ulteriore atto normativo, di cui è discussa la natura giuridica o extra-giuridica, quale è il codice deontologico.[11]

Il limite posto al campo proprio dell’attività infermieristica è costituito, da un lato, “dalle competenze previste per le professioni mediche”, che “non sono indicate dalla legge se non in modo residuale e generalmente limitate alle attività medico-specialistiche”, dall’altro, “dal rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali” [12].

L’evoluzione della professione infermieristica è proseguita con la L. 10 agosto 2000, n. 251 (“Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”) che per quel che interessa, in questa sede, evidenziare ha sottolineato (art. 1, comma 1) come gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza”.

Compito dello Stato e delle Regioni, nell’esercizio delle proprie funzioni, è quello di promuovere “la valorizzazione e la responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo delle professioni infermieristico-ostetriche al fine di contribuire alla realizzazione del diritto alla salute, al processo di aziendalizzazione nel Servizio sanitario nazionale, all’integrazione dell’organizzazione del lavoro della sanità in Italia con quelle degli altri Stati dell’Unione Europea” (cfr. art. 1 comma 2); il Ministero della Sanità (previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano), in particolare, deve tra l’altro, emanare linee guida per “la revisione dell’organizzazione del lavoro, incentivando modelli di assistenza personalizzata”.

L’allegato 1 del CCNL Integrativo del personale del Comparto Sanità del 20/09/2001, stabilisce che appartengono alla categoria D, che costituisce la categoria di grado più elevato dell’intero comparto, i lavoratori che ricoprono posizioni di lavoro che richiedono oltre a conoscenze teoriche specialistiche e/o gestionali in relazione ai titoli di studio e professionali conseguiti, autonomia e responsabilità proprie, capacità organizzative, di coordinamento e gestionali caratterizzate da discrezionalità operativa, rinviando al D.M. 739/1994, per le attribuzioni specifiche tipiche del ruolo dell’Infermiere.

Con la L. 1 Febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali), si può fondatamente sostenere che il processo legislativo di valorizzazione della professione infermieristica si concluda: l’accesso al ruolo viene, infatti, subordinato al conseguimento del titolo universitario rilasciato a seguito di esame finale con valore abilitante (art. 2, comma 1), specificando, tra l’altro, che l’aggiornamento professionale è effettuato secondo modalità identiche a quelle previste per la professione medica” (art. 2, comma 4).

Infine, il D.lgs. 28.01.2016 n. 15 nel recepire la direttiva comunitaria (direttiva 2013/55/UE), relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali (oltre al regolamento comunitario n. 1024/2012, riguardante la cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno (Regolamento IMI), ha confermato il ruolo dell’infermiere come responsabile dell’assistenza, specificando che il relativo titolo implica la capacità di applicare specifiche competenze[13] a prescindere dal luogo in cui è avvenuta la formazione (università, istituti di insegnamento superiore, scuole professionali, ecc.).

L’esame della complessiva disciplina della professione infermieristica evidenzia, dunque, un profilo di responsabilità strettamente collegato alle funzioni di assistenza generale al malato, del tutto svincolato da funzioni di natura meramente esecutiva.

Gli interventi normativi sopra richiamati hanno condotto, infatti, attraverso la soppressione del carattere di ausiliarietà della professione infermieristica, a un ripensamento delle competenze della relativa figura professionale (ricordiamo che il disposto finale della L. 26.02.1999, n. 42 precisa che l’esercizio professionale deve avvenire nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali) e in particolare all’individuazione di due distinti livelli operativi: un livello autonomo (l’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica) e uno collaborante (l’infermiere partecipa alla identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività).

Con specifico riferimento al rapporto medico/infermiere tale ripensamento è avvenuto attraverso il passaggio da un rapporto di tipo gerarchico a un rapporto di tipo funzionale, dove medico e infermiere agiscono insieme nell’assunzione delle decisioni in ambito assistenziale e terapeutico, nel rispetto dei relativi ambiti di competenza/professionalità.

CENNI SULLE COMPETENZE SPECIFICHE DEL PERSONALE DI SUPPORTO

L’allegato 1 del predetto CCNL integrativo (parzialmente modificato dal CCNL Sanità 2002-2005, limitatamente alla categoria C) definisce i profili del personale subalterno, di categoria A, B, e C, rispetto a quello posto in posizione apicale, cui appartengono gli infermieri.

Con specifico riferimento alle mansioni del cd. personale di supporto, ossia del personale ausiliario (categoria A) e del personale tecnico addetto all’assistenza (categoria B – quest’ultima figura professionale è considerata, dall’art. 4, comma 2 del CCNL integrativo del 20.09.2001, in via residuale per effetto dell’istituzione nella dotazione organica aziendale dell’operatore sociosanitario – categoria BS), la vigente contrattazione collettiva prevede: 1) alla categoria A, appartengono i lavoratori che ricoprono posizioni di lavoro che richiedono capacità manuali generiche per lo svolgimento di attività semplici ed autonomia esecutiva e responsabilità, nell’ambito delle istruzioni fornite. Tra questi l’ausiliario specializzato, il quale svolge attività semplici di tipo manuale […] quali ad esempio, l’utilizzazione di macchinari e attrezzature specifici, la pulizia ed il riordino degli ambienti esterni ed interni e tutte le operazioni inerenti il trasporto dei materiali in uso, nell’ambito dei settori o servizi di assegnazione, le operazioni elementari e di supporto richieste, necessarie al funzionamento dell’unità operativa. […] L’ausiliario specializzato operante nei servizi socio-assistenziali provvede all’accompagnamento e allo spostamento dei degenti, in relazione alle tipologie assistenziali e secondo i protocolli organizzativi delle unità operative interessate (cfr. CCNL integrativo, p. 71); 2) alla categoria B, tra gli altri, appartiene l’operatore tecnico addetto all’assistenza (OTA), il quale svolge attività alberghiere relative alla degenza comprese l’assistenza ai degenti per la loro igiene personale, il trasporto del materiale, la pulizia e la manutenzione di utensili e apparecchiature e con livello economico B-super, nell’ambito del profilo di operatore tecnico specializzato (cfr. CCNL integrativo, p. 74), l’operatore sociosanitario, il quale svolge la sua attività sia nel settore sociale che in quello sanitario in servizi di tipo socio-assistenziali e sociosanitario […] Svolge la sua attività su indicazione – ciascuna secondo le proprie competenze – degli operatori professionali preposti all’assistenza sanitaria e a quella sociale, ed in collaborazione con gli altri operatori, secondo il criterio del lavoro multiprofessionale. Le attività dell’operatore sociosanitario sono rivolte alla persona ed al suo ambiente di vita, al fine di fornire: a) assistenza diretta e supporto alla gestione dell’ambiente di vita; b) intervento igienico sanitario e di carattere sociale; c) supporto, gestionale, organizzativo e formativo (per l’elenco delle attività degli Ausiliari e OTA cfr. anche DPR 28.11.1990, n. 384; per quello del personale OSS, cfr. Allegato A del Provvedimento 22.02.2001 della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano); 3) alla categoria C, tra gli altri, appartiene l’infermiere generico, una figura professionale residuale, le cui competenze, disciplinate dall’art. 6 del DPR, 14.03.1974 n. 225, sono per la gran parte assorbite dal personale OSS (art. 18 CCNL 7 Aprile 1999 e art. 18 CCNL 19 aprile 2004).

IL FATTORE FRENANTE

Il “campo proprio” di attività e di responsabilità dell’infermiere, come definito dall’attuale sistema di abilitazione all’esercizio professionale, non è, tuttavia, mai divenuto “campo esclusivo”, il che come vedremo ha influenzato (e tuttora influenza) gli indirizzi giurisprudenziali in tema di responsabilità civile del professionista sanitario.

L’ostacolo principale (alla trasformazione del campo “proprio” in “esclusivo”) è costituito dall’insufficienza delle dotazioni organiche, in particolare del c.d. personale di supporto (ausiliari, ota, oss), che ha costituito per anni il principale fattore frenante, impedendo che si affermasse una piena consapevolezza del “nuovo” ruolo ritagliato dal legislatore.

In talune realtà, l’insufficienza di personale è talmente grave da determinare una confusione dei ruoli professionali, impedendo all’infermiere di svolgere pienamente la sua attività.

Al fine di garantire la qualità dell’assistenza, i provvedimenti attuativi della Leggi regionali (per la RAS, si tratta della L.R. 10/2006 -“Tutela della salute e riordino del servizio sanitario della Sardegna”) definiscono, tra gli altri, i requisiti strutturali e organizzativi delle aree di degenza, individuando le dotazioni organiche minime del personale (medico, infermieristico, addetto all’assistenza igienico-sanitaria e ausiliario) in rapporto al livello di assistenza che la struttura deve garantire (base, medio, elevato, intensivo) e al numero dei posti letto; gli anzidetti requisiti minimi devono essere costantemente aggiornati attraverso deliberazioni della Giunta Regionale e che la permanenza dei requisiti sia assoggettata a periodici controlli.

Come anticipato, il confronto tra gli standard normati e la dotazione delle strutture di appartenenza rende palese, in diverse strutture ospedaliere, la gravissima insufficienza del personale.

QUALI RIFLESSI SUL PIANO DELL’AUTONOMIA PROFESSIONALE E DELLA REPONSABILITA’ INDIVIDUALE

  1. LA POSIZIONE DELL’INFERMIERE

La vigente legislazione e la contrattazione collettiva escludono che gli infermieri possano essere chiamati a svolgere compiti o mansioni inferiori alla qualifica di appartenenza che la precedente normativa circoscriveva, comunque, a compiti e mansioni immediatamente inferiori alla qualifica, e sempre che ciò avvenisse occasionalmente e secondo criteri di rotazione.

In questo senso anche l’articolo 13, comma 5, del CCNL del Comparto Sanità 7 aprile 1999 nello stabilire testualmente che “ciascun dipendente è tenuto a svolgere anche attività complementari e strumentali a quelle inerenti lo specifico profilo attribuito i cui compiti e responsabilità sono indicati a titolo esemplificativo nelle declaratorie”, esclude che esse potessero riferirsi a quelle (certamente non complementari né strumentali) proprie del personale di categoria A, B e C secondo il CCNL di riferimento.

In questo stesso senso, del resto, si è espressa la Corte di Cassazione, sezione lavoro, che giustifica l’adibizione del lavoratore all’esercizio di mansioni marginali ed accessorie a quelle di competenza (Cass. civ, sez. lav., 2 maggio 2003, n. 6714; Cass. Civ. sez. lav. 8 giugno 2001, n. 7821), purché esse non rientrino nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata, ritenendo altrimenti sussistente un problema di dequalificazione.

Non si può, infatti, dubitare che l’assistenza al malato, non si risolva nella mera esecuzione della terapia e delle prescrizioni mediche (peraltro svolte in modo frettoloso e in presenza di continue interruzioni) proprio perché l’infermiere è il responsabile dell’assistenza generale al malato, che comprende lo svolgimento di un’attività autonoma e di collaborazione con il medico disciplinata dal contratto collettivo, dalle disposizioni normative che definiscono il profilo professionale e dallo stesso codice deontologico.

L’assistenza “preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa”, è irriducibile alla mera applicazione delle prescrizioni terapeutiche, ma si caratterizza anche per l’aspetto psicologico, relazionale ed educativo, e, come tale, è assolutamente inconciliabile con l’assunzione di compiti destinati a ridimensionare la qualità di quell’intervento. E invece, “lo stato di emergenza permanente”, oltre ad imporre carichi di lavoro inconciliabili con le esigenze di cura e rischi professionali facilmente immaginabili, costringe spesso gli infermieri a limitare l’assistenza alla terapia (spesso salvavita) trascurando giocoforza l’assistenza psicologica e relazionale del paziente, nonché l’attività di educazione sanitaria del medesimo e dei suoi familiari, le attività di studio, ricerca e formazione (propria e del personale di supporto, nonché dei tirocinanti) nonché le attività di gestione e pianificazione (di natura organizzativa) degli interventi di natura assistenziale.

In particolare, per meglio comprendere la fondamentale importanza dell’approccio diagnostico, relazionale e psicologico, che peraltro costituisce un punto di arresto fondamentale del codice deontologico dell’infermiere (cfr. artt. 1, 2, 20, 23, 24, 29, 32, 35, 41, 44 – codice deontologico del 10 gennaio 2009[14][15]), è opportuno soffermarsi su quale dovrebbe essere l’intervento specialistico dell’infermiere.

Le sei fasi del processo assistenziale infermieristico sono le seguenti: 1) raccolta dati sullo stato di salute della persona; 2) individuazione della diagnosi infermieristica[16] e dei problemi collaborativi[17]; 3) pianificazione degli obiettivi/risultati attesi; 4) pianificazione degli interventi; 5) attuazione degli interventi stabiliti; 6) valutazione del raggiungimento degli obiettivi identificati.

E’ facile intendere come il demansionamento/dequalificazione del lavoratore, conseguente alla spesso cronica inconsistenza numerica delle dotazioni organiche comprometta ab origine il processo cd. di nursing.

Questo spiega perché la cartella infermieristica (alcuni modelli tuttora in uso non consentono nemmeno di attestare il processo di nursing) venga spesso compilata per documentare, alla stessa stregua di un diario clinico, le terapie praticate, lo stato clinico generale del paziente, gli interventi assistenziali e gli esami ematochimici e diagnostici praticati in ciascun turno, ma non invece per documentare i bisogni dei pazienti espressi al momento del ricovero e, successivamente, nel corso della degenza, la diagnosi, gli interventi decisi, quelli eseguiti e i risultati ottenuti.

Gli infermieri spesso non possono utilizzare lo strumento operativo e informativo indispensabile per registrare, progettare, gestire, comunicare, valutare e documentare l’assistenza infermieristica propriamente detta.

Tale preclusione assume gravissima rilevanza anche sotto il profilo contrattuale, perché esemplifica la portata dell’inadempimento del datore di lavoro e incide sul corretto svolgimento dell’attività infermieristica; a ciò si aggiunga che l’utilizzo della cartella deve considerarsi un preciso obbligo etico e deontologico (già nel codice deontologico 12/5/99, art. 4.7; attualmente, cfr. capo IV art. 27 codice deontologico 10.01.2009) e la sua adozione è riconosciuta, tra l’altro, nell’art. 69 del D.P.R. n. 384 del 28 novembre 1990 (che recepiva l’accordo per il contratto collettivo dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale): “deve attivarsi un modello di assistenza infermieristica che, nel quadro di valorizzazione della specifica professionalità consenta, anche attraverso l’adozione di una cartella infermieristica, un progressivo miglioramento delle prestazioni al cittadino.

L’autonomia dell’infermiere, è, dunque, fortemente limitata e risente molto spesso della totale mancanza di un piano di assistenza infermieristica che trova spazio esclusivamente all’interno dei protocolli medici.

Reiteratamente la magistratura sarda, in particolare Tribunale di Cagliari sez. lavoro con le sentenze nn. 968/2005 (rif. Inf. Ostetricia e Ginecologia), 1287/2013 (rif. Inf. Geriatria) 745/2014 (rif. Inf. Medicina), 1088/2014 (rif. Inf. Medicina), 525/2015 (rif. Inf. Cardiochirurgia), 1302/2015 (rif. Inf. Ortopedia), 331/2016 (rif. inf. Chirurgia generale), 796/2016 (Inf. Neurochirurgia) e Corte d’Appello di Cagliari sez. lavoro, con le sentenze nn. 336/2015, 187/2016, 188/2016, accertato il demansionamento non occasionale degli infermieri, non si è limitata a disporre la reintegrazione coattiva nelle mansioni (con divieto di adibizione alle mansioni inferiori del personale di categoria A e B), ma ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dai lavoratori in conseguenza della lesione alla professionalità e all’immagine con la seguente motivazione: “Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, ogni lesione seria di un diritto inviolabile della persona, tutelato costituzionalmente, può dar luogo ad un pregiudizio non direttamente economico ma comunque suscettibile di risarcimento. Non c’è dubbio che ha tutela costituzionale il diritto del lavoratore ad esprimere la propria competenza professionale in conformità alle condizioni di assunzione, a conservarla e ad accrescerla (art. 35 commi 1 e 2); la sua lesione anche quando non provochi un danno alla salute, può incidere sulla dignità personale del lavoratore indipendentemente dalla qualificazione del pregiudizio come morale o esistenziale” (cfr. Tribunale di Cagliari con sentenza del 26.06.2013, n. 1287/13, confermata dalla Corte d’Appello con sentenza n. 336/2015).

E ancora (cfr. sentenze nn. 745/14, 1088/14, 525/15, 1302/15): “non c’è dubbio che ha tutela costituzionale il diritto del lavoratore a esprimere la propria competenza professionale in conformità alle condizioni di assunzione, a conservarla e ad accrescerla (art. 35, commi primo e secondo Cost.); la lesione può incidere negativamente su interessi patrimoniali e non patrimoniali del lavoratore […] “deve ritenersi senz’altro sussistente il danno all’immagine professionale e alla dignità personale dei lavoratori, connesso eziologicamente al comportamento illecito della parte datoriale di cui si discute. Tenuto conto che la relativa prova può essere data con ogni mezzo, anche con presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, nel caso in esame il pregiudizio deve ritenersi accertato sulla base degli elementi emersi, quanto alle caratteristiche del demansionamento, alla sua gravità e durata […] La gravità del fenomeno si desume anche dall’essere state assegnate ai ricorrenti incombenze di qualifiche inferiori alla propria di due livelli), alla sua conoscibilità all’interno dell’ambiente di lavoro (si consideri che l’attività di cura lato sensu del paziente, all’interno di un ospedale pubblico, vede impegnate figure professionali diverse, da quella del medico, a quella, per l’appunto, dell’infermiere e del personale di supporto) ed all’esterno (le notizie dell’organizzazione di un reparto ospedaliero essendo facilmente veicolabili attraverso le esperienze dei pazienti e dei loro familiari)”.

Il danno non patrimoniale di natura morale o esistenziale (come danno derivante dalla compressione di tutte le attività non reddituali – di rilevanza costituzionale – che contribuiscono alla realizzazione della persona – cfr. P. Cendon e P. Ziviz, Il Danno Esistenziale, Il diritto privato oggi, Giuffrè 2000), trova la sua causa nella “mortificazione professionale dell’infermiere (per utilizzare un’efficace espressione del Tribunale di Cagliari), spesso costretto a subire una gravissima violazione alla dignità personale, alla reputazione e all’immagine nell’ambiente di lavoro e all’esterno, in diretta conseguenza dell’intuitivo discredito che si accompagna alla figura del “tuttofare”; quindi nelle stesse modalità di svolgimento della prestazione di lavoro, condizionata da uno stato di emergenza e precarietà permanente, e, quindi, fonte di frustrazione in ragione dell’immiserimento professionale”.

LA POSIZIONE DEL MEDICO

La carenza del personale di supporto ha letteralmente impedito la trasformazione del rapporto medico/infermiere nel senso voluto dal legislatore – attraverso la soppressione del carattere di ausiliarietà della professione infermieristica e il riconoscimento di un livello autonomo di intervento – trovasse concreta attuazione.

La scarsità di personale ha, infatti, mantenuto inalterato il contenuto di una relazione che spesso non può essere di collaborazione nell’ambito di distinte e autonome funzioni, ma di tipo gerarchico, dovendo il medico rivolgersi all’infermiere per ogni incombenza anche di contenuto elementare.

La negazione del ruolo autonomo dell’infermiere (che ha avuto grande risalto sulla stampa nazionale con l’editoriale[18] di Mario Pirani, “Todos caballeros negli ospedali Italiani” che ironizzava, con non poca confusione, sul conflitto interprofessionale), non giova nemmeno al medico che la giurisprudenza ha spesso individuato come l’unico responsabile dell’assistenza negata al paziente.

UN CASO PARADIGMATICO – CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, 12 APRILE 2016, N. 7106[19]

In data 30.08.1998, decedeva presso un presidio ospedaliero un paziente ricoverato a seguito di ictus cerebrale.

La causa della morte è stata individuata in un’iniezione di cloruro di potassio concentrato somministrato da un’Infermiera (la prescrizione indicava una diluizione di 1 fiala in 100 ml di soluzione di fisiologica in luogo dei 500 ml, indicati nella letteratura).

L’Infermiera si difendeva adducendo di aver correttamente eseguito quanto prescritto dal medico, il quale dopo l’iniezione avrebbe corretto la relativa annotazione sulla cartella clinica.

Il medico, allegando la responsabilità dell’infermiera avendo quest’ultima materialmente praticato l’iniezione letale.

In primo grado, il Tribunale competente condannava il medico per l’errata prescrizione di potassio cloruro concentrato e contestualmente escludeva la responsabilità dell’Infermiera in quanto “mera esecutrice” della prescrizione e peraltro con “poca esperienza in terapia endovenosa” in quanto abilitata all’esercizio professionale dal 1992.

In appello, veniva invece affermata la corresponsabilità del medico e dell’infermiera, sul presupposto che la stessa avesse eseguito l’errata prescrizione “senza effettuare alcuna forma di controllo critico”. Il Giudice d’appello superava l’argomentazione difensiva incentrata sulla “scarsa esperienza specifica”, osservando che non fosse possibile graduare la responsabilità professionale in funzione dell’esperienza concreta “dovendo invece valere la presunzione secondo cui ”chi è abilitato ad operare in un settore professionale di qualsivoglia genere è portatore delle relative conoscenze tecniche ed è onerato del possesso delle medesime, indipendentemente dalla risalenza o meno nel tempo della sua attività”.

In merito alla problematica relativa alla possibilità, in capo all’esecutore di disattendere o sindacare le prescrizioni impartitegli dal personale medico, la Corte osservava che nel profilo professionale dell’Infermiere (D.M. n. 739/94) rientra l’attribuzione della corretta applicazione delle prescrizioni terapeutiche, e quindi il dovere di adeguarne l’esecuzione ai protocolli medici vigenti, che abbia la possibilità di conoscere.

La Corte d’Appello escludeva quindi che l’Infermiera potesse considerarsi “mero esecutore materiale” delle prescrizioni impartite, riconoscendo alla stessa la possibilità di delibazione sulla prescrizione medica erronea o incompleta.

La Cassazione ha confermato la sentenza impugnata, escludendo, tuttavia, che l’infermiera potesse considerarsi “responsabile unica delle proprie azioni orientate al risultato finale della cura e dell’assistenza” (motivo addotto dal medico per giustificare il superamento della responsabilità medica per fatto degli ausiliari ex art. art. 1228 del Codice Civile[20]).

La Suprema Corte ha considerato, infatti, decisiva, ai fini dell’accertamento della corresponsabilità del medico, l’inosservanza dell’obbligo di prescrivere una terapia corretta e completa (atto medico non delegabile).

La sentenza affronta il tema della responsabilità d’equipe in ambito sanitario sul quale la Corte si è già reiteratamente pronunciata.

– Corte di Cassazione, IV sez. penale – Sentenza, n. 447 del 2.3.2000: “Gli operatori sanitari sono tutti, ex lege, portatori di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti […] posizione che va sotto il nome di posizione di protezione, la quale è contrassegnata dal dovere giuridico incombente al soggetto di provvedere alla tutela di un certo bene giuridico contro qualsiasi pericolo atto a minacciarne l’integrità

– Corte di Cassazione, IV sez. penale, Sentenza n. 43988 del 28.10.2013: “Ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza”.

– Corte di Cassazione, IV sez. penale, Sentenza, n. 2192 del 16.01.2015: la collaborazione deve essere prestata in modo critico “non al fine di sindacare l’operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell’efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne l’attenzione sugli errori percepiti, al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all’ipotesi soggetta a esame”.

Nella fattispecie in esame, il Giudice ha valorizzato (sia pure a fini punitivi) l’autonomia e la conseguente responsabilità Infermieristica, estesa all’”onere di adeguarne l’esecuzione ai protocolli medici vigenti che egli abbia la possibilità di conoscere”.

CONCLUSIONI

L’obbligo di protezione che deriva dalla posizione di garanzia degli operatori sanitari in ragione delle diverse competenze professionali coinvolte nel processo clinico/assistenziale, spiega efficacemente come medico e infermiere possano essere chiamati a rispondere civilmente e penalmente di fatti che si verifichino in contesti organizzativi problematici che, purtroppo, non possono trovare alcuno spazio nel processo se non, eventualmente, quali attenuanti (e quindi ai fini della graduazione della pena).

La realtà processuale non assorbe, infatti, completamente, la realtà storica e le deficienze organizzative, soprattutto quando non denunciate, non escludono né limitano la responsabilità dell’operatore che deve prestare assistenza al malato, cui non interessa ovviamente se il numero di Medici, Infermieri, OSS corrisponda a quello prescritto per legge.

I rispettivi rischi professionali dovrebbero suggerire di superare qualsiasi antagonismo e spingere le organizzazioni sindacali, gli ordini professionali e, soprattutto, gli operatori sanitari a remare nello stesso verso per superare le criticità esistenti.

Avv. Giacomo Doglio

[1]   “Ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, con accordo tra Governo e Regioni, previa concertazione con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali dei profili sanitari interessati, sono definiti i ruoli, le competenze, le relazioni professionali e le responsabilità individuali e di équipe su compiti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, tecniche della riabilitazione e della prevenzione, anche attraverso percorsi formativi complementari. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

[2] Il testo previgente dell’art. 2103 c.c. stabiliva che “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Ogni patto contrario è nullo.”

[3] Art. 35 Cost. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la      formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

[4] Art. 2087 c.c. – L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

[5] cfr. Luca Benci “Le competenze avanzate e la cabina di regia: riflessioni giuridiche”, articolo del 20.01.2014, in www.lucabenci.it

[6] Art. 15. – Disciplina della dirigenza medica e delle professioni sanitarie –

  1. Fermo restando il principio dell’invarianza della spesa, la dirigenza sanitaria e’ collocata in un unico ruolo, distinto per profili professionali, ed in un unico livello, articolato in relazione alle diverse responsabilita’ professionali e gestionali. In sede di contrattazione collettiva nazionale sono previste, in conformita’ ai principi e alle disposizioni del presente decreto, criteri generali per la graduazione delle funzioni dirigenziali nonche’ per l’assegnazione, valutazione e verifica degli incarichi dirigenziali e per l’attribuzione del relativo trattamento economico accessorio correlato alle funzioni attribuite ed alle connesse responsabilita’ del risultato. 2. La dirigenza sanitaria e’ disciplinata dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, e successive modificazioni, salvo quanto previsto dal presente decreto. 3. L’attivita’ dei dirigenti sanitari e’ caratterizzata, nello svolgimento delle proprie mansioni e funzioni, dall’autonomia tecnico- professionale i cui ambiti di esercizio, attraverso obiettivi momenti di valutazione e verifica, sono progressivamente ampliati. L’autonomia tecnico-professionale, con le connesse responsabilita’, si esercita nel rispetto della collaborazione multiprofessionale, nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attivita’ promossi, valutati e verificati a livello dipartimentale ed aziendale, finalizzati all’efficace utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualita’. Il dirigente, in relazione all’attivita’ svolta, ai programmi concordati da realizzare ed alle specifiche funzioni allo stesso attribuite, e’ responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito. 4. All’atto della prima assunzione, al dirigente sanitario sono affidati compiti professionali con precisi ambiti di autonomia da esercitare nel rispetto degli indirizzi del dirigente responsabile della struttura e sono attribuite funzioni di collaborazione e corresponsabilita’ nella gestione delle attivita’. A tali fini il dirigente responsabile della struttura predispone e assegna al dirigente un programma di attivita’ finalizzato al raggiungimento degli obiettivi prefissati ed al perfezionamento delle competenze tecnico professionali e gestionali riferite alla struttura di appartenenza. In relazione alla natura e alle caratteristiche dei programmi da realizzare, alle attitudini e capacita’ professionali del singolo dirigente, accertate con le procedure valutative di verifica di cui al comma 5, al dirigente, con cinque anni di attivita’ con valutazione positiva sono attribuite funzioni di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, studio e ricerca, ispettive, di verifica e di controllo, nonche’ possono essere attribuiti incarichi di direzione di strutture semplici. 5. I dirigenti medici e sanitari sono sottoposti a una verifica annuale correlata alla retribuzione di risultato, secondo le modalita’ definite dalle regioni, le quali tengono conto anche dei principi del titolo II del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, e successive modificazioni, nonche’ a una valutazione al termine dell’incarico, attinente alle attivita’ professionali, ai risultati raggiunti e al livello di partecipazione ai programmi di formazione continua, effettuata dal Collegio tecnico, nominato dal direttore generale e presieduto dal direttore di dipartimento, con le modalita’ definite dalla contrattazione nazionale. Gli strumenti per la verifica annuale dei dirigenti medici e sanitari con incarico di responsabile di struttura semplice, di direzione di struttura complessa e dei direttori di dipartimento rilevano la quantita’ e la qualita’ delle prestazioni sanitarie erogate in relazione agli obiettivi assistenziali assegnati, concordati preventivamente in sede di discussione di budget, in base alle risorse professionali, tecnologiche e finanziarie messe a disposizione, registrano gli indici di soddisfazione degli utenti e provvedono alla valutazione delle strategie adottate per il contenimento dei costi tramite l’uso appropriato delle risorse. Degli esiti positivi di tali verifiche si tiene conto nella valutazione professionale allo scadere dell’incarico. L’esito positivo della valutazione professionale determina la conferma nell’incarico o il conferimento di altro incarico di pari rilievo, senza nuovi o maggiori oneri per l’azienda, fermo restando quanto previsto dall’articolo 9, comma 32, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122)). 6. Ai dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura, da attuarsi, nell’ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l’adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalita’ preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata. Il dirigente e’ responsabile dell’efficace ed efficiente gestione delle risorse attribuite. I risultati della gestione sono sottoposti a verifica annuale tramite il nucleo di valutazione. 7. Alla dirigenza sanitaria si accede mediante concorso pubblico per titoli ed esami, disciplinato ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n.483 ivi compresa la possibilita’ di accesso con una specializzazione in disciplina affine. Gli incarichi di direzione di struttura complessa sono attribuiti a coloro che siano in possesso dei requisiti di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n.484, ((…)).7-bis. Le regioni, nei limiti delle risorse finanziarie ordinarie, e nei limiti del numero delle strutture complesse previste dall’atto aziendale di cui all’articolo 3, comma 1-bis, tenuto conto delle norme in materia stabilite dalla contrattazione collettiva, disciplinano i criteri e le procedure per il conferimento degli incarichi di direzione di struttura complessa, previo avviso cui l’azienda e’ tenuta a dare adeguata pubblicita’, sulla base dei seguenti principi: a) la selezione viene effettuata da una commissione composta dal direttore sanitario dell’azienda interessata e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell’incarico da conferire, individuati tramite sorteggio da un elenco nazionale nominativo costituito dall’insieme degli elenchi regionali dei direttori di struttura complessa appartenenti ai ruoli regionali del Servizio sanitario nazionale. Qualora fossero sorteggiati tre direttori di struttura complessa della medesima regione ove ha sede l’azienda interessata alla copertura del posto, non si procede alla nomina del terzo sorteggiato e si prosegue nel sorteggio fino ad individuare almeno un componente della commissione direttore di struttura complessa in regione diversa da quella ove ha sede la predetta azienda. La commissione elegge un presidente tra i tre componenti sorteggiati; in caso di parita’ di voti e’ eletto il componente piu’ anziano. In caso di parita’ nelle deliberazioni della commissione prevale il voto del presidente; b) la commissione riceve dall’azienda il profilo professionale del dirigente da incaricare. Sulla base dell’analisi comparativa dei curricula, dei titoli professionali posseduti, avuto anche riguardo alle necessarie competenze organizzative e gestionali, dei volumi dell’attivita’ svolta, dell’aderenza al profilo ricercato e degli esiti di un colloquio, la commissione presenta al direttore generale una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attribuiti. Il direttore generale individua il candidato da nominare nell’ambito della terna predisposta dalla commissione; ove intenda nominare uno dei due candidati che non hanno conseguito il migliore punteggio, deve motivare analiticamente la scelta. L’azienda sanitaria interessata puo’ preventivamente stabilire che, nei due anni successivi alla data del conferimento dell’incarico, nel caso in cui il dirigente a cui e’ stato conferito l’incarico dovesse dimettersi o decadere, si procede alla sostituzione conferendo l’incarico ad uno dei due professionisti facenti parte della terna iniziale; c) la nomina dei responsabili di unita’ operativa complessa a direzione universitaria e’ effettuata dal direttore generale d’intesa con il rettore, sentito il dipartimento universitario competente, ovvero, laddove costituita, la competente struttura di raccordo interdipartimentale, sulla base del curriculum scientifico e professionale del responsabile da nominare; d) il profilo professionale del dirigente da incaricare, i curricula dei candidati, la relazione della commissione sono pubblicati sul sito internet dell’azienda prima della nomina. Sono altresi’ pubblicate sul medesimo sito le motivazioni della scelta da parte del direttore generale di cui alla lettera b), terzo periodo. I curricula dei candidati e l’atto motivato di nomina sono pubblicati sul sito dell’ateneo e dell’azienda ospedaliero-universitaria interessati. 7-ter. L’incarico di direttore di struttura complessa e’ soggetto a conferma al termine di un periodo di prova di sei mesi, prorogabile di altri sei, a decorrere dalla data di nomina a detto incarico, sulla base della valutazione di cui al comma 5. 7-quater. L’incarico di responsabile di struttura semplice, intesa come articolazione interna di una struttura complessa, e’ attribuito dal direttore generale, su proposta del direttore della struttura complessa di afferenza, a un dirigente con un’anzianita’ di servizio di almeno cinque anni nella disciplina oggetto dell’incarico. L’incarico di responsabile di struttura semplice, intesa come articolazione interna di un dipartimento, e’ attribuito dal direttore generale, sentiti i direttori delle strutture complesse di afferenza al dipartimento, su proposta del direttore di dipartimento, a un dirigente con un’anzianita’ di servizio di almeno cinque anni nella disciplina oggetto dell’incarico. Gli incarichi hanno durata non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni, con possibilita’ di rinnovo. L’oggetto, gli obiettivi da conseguire, la durata, salvo i casi di revoca, nonche’ il corrispondente trattamento economico degli incarichi sono definiti dalla contrattazione collettiva nazionale. 7-quinquies. Per il conferimento dell’incarico di struttura complessa non possono essere utilizzati contratti a tempo determinato di cui all’articolo 15-septies)). 8. L’attestato di formazione manageriale di cui all’articolo 5, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n.484, come modificato dall’articolo 16-quinquies, deve essere conseguito dai dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa entro un anno dall’inizio dell’incarico; il mancato superamento del primo corso, attivato dalla regione successivamente al conferimento dell’incarico, determina la decadenza dall’incarico stesso. I dirigenti sanitari con incarico quinquennale alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, sono tenuti a partecipare al primo corso di formazione manageriale programmato dalla regione; i dirigenti confermati nell’incarico sono esonerati, dal possesso dell’attestato di formazione manageriale. 9. I contratti collettivi nazionali di lavoro disciplinano le modalita’ di salvaguardia del trattamento economico fisso dei dirigenti in godimento alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229,.

[7] Con il Decreto 17/01/1997 n. 70, dal titolo “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere pediatrico”, il Ministero della Sanità (ora Ministero della salute) delineava il profilo professionale dell’infermiere pediatrico con funzioni del tutto analoghe a quelle dell’Infermiere, da esercitarsi per il neonato, il bambino, l’adolescente.

[8] Quanto ai percorsi formativi, l’art. comma 7, precisava che “Il percorso formativo viene definito con decreto del Ministero della sanità e si conclude con il rilascio di un attestato di formazione specialistica che costituisce titolo preferenziale per l’esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree, dopo il superamento di apposite prove valutative. La natura preferenziale del titolo è strettamente legata alla sussistenza di obiettive necessità del servizio e recede in presenza di mutate condizioni di fatto”.

[9] L’ultima proposta di Accordo Stato-Regioni elaborata dal Tavolo di Lavoro Regioni-Ministero individua le seguenti aree di intervento: a) Area cure primarie – servizi territoriali distrettuali; b) Area intensiva e dell’emergenza urgenza; c) Area medica; d) Area chirurgica; Area neonatologia e pediatrica; f) Area Salute mentale e dipendenze.

[10]  Con la L. 1999, n. 42, la denominazione “professione sanitaria ausiliaria” di cui al T.U. delle leggi sanitarie, approvato con R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, veniva sostituita (cfr. art. 1) dalla denominazione “professione sanitaria”.

[11]    cfr. Le norme deontologiche tra teoria e prassi giurisprudenziale: notazioni sul codice deontologico medico” di Paolo Laonigro in http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/app/uploads/2010/09/Laonigro-Norme deontologiche_cod_medico.pdf):“La riflessione sul ruolo della disciplina deontologica ha posto in evidenza come la natura delle norme deontologiche non possa desumersi né dalla natura giuridica degli ordinamenti professionali né dal potere disciplinare ad essi attribuito da una norma statuale”. Secondo l’orientamento tradizionale, le regole deontologiche costituiscono precetti extra-giuridici ovvero norme interne della categoria, come tali esterne all’ordinamento generale. “Secondo un orientamento più recente, invece, se “l’Ordine professionale è istituito dallo Stato, che ad esso attribuisce funzioni di interesse generale, l’ordinamento giuridico della professione è parte di quello più ampio dello Stato, che lo comprende, ed è, conseguentemente, ordinamento giuridico interno di quest’ultimo. In altre parole, secondo tale ricostruzione le regole deontologiche delle diverse professioni, essendo norme dell’istituzione, sono anche norme dell’ordinamento statale che “comprende” l’ordinamento professionale”.

[12]   cfr. Luca Benci “Le competenze avanzate e la cabina di regia: riflessioni giuridiche”, articolo del 20.01.2014, in www.lucabenci.it

[13] cfr. art. 30 (Modifiche all’articolo 38 del decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206): “Il titolo di infermiere responsabile dell’assistenza generale sancisce la capacità del professionista in questione di applicare almeno le seguenti competenze, a prescindere dal fatto che la formazione si sia svolta in università, in istituti di insegnamento superiore di un livello riconosciuto come equivalente o in scuole professionali ovvero nell’ambito di programmi di formazione professionale infermieristica: a) la competenza di individuare autonomamente le cure infermieristiche necessarie utilizzando le conoscenze teoriche e cliniche attuali nonché di pianificare, organizzare e prestare le cure infermieristiche nel trattamento dei pazienti, sulla base delle conoscenze e delle abilità acquisite ai sensi del comma 6, lettere a), b) e c), in un’ottica di miglioramento della pratica professionale; b) la competenza di lavorare efficacemente con altri operatori del settore sanitario, anche per quanto concerne la partecipazione alla formazione pratica del personale sanitario sulla base delle conoscenze e delle abilità acquisite ai sensi del comma 6, lettere d) ed e); c) la competenza di orientare individui, famiglie e gruppi verso stili di vita sani e l’autoterapia, sulla base delle conoscenze e delle abilità acquisite ai sensi del comma 6, lettere a) e b); d) la competenza di avviare autonomamente misure immediate per il mantenimento in vita e di intervenire in situazioni di crisi e catastrofi; e) la competenza di fornire autonomamente consigli, indicazioni e supporto alle persone bisognose di cure e alle loro figure di appoggio; f) la competenza di garantire autonomamente la qualità delle cure infermieristiche e di valutarle; g) la competenza di comunicare in modo esaustivo e professionale e di cooperare con gli esponenti di altre professioni del settore sanitario; h) la competenza di analizzare la qualità dell’assistenza in un’ottica di miglioramento della propria pratica professionale come infermiere responsabile dell’assistenza generale.” .

[14] cfr. ad es. www.ipasvi.it/norme-e-codici/deontologia/il-codice-deontologico.htm

[15] art. 1:L’infermiere è il professionista sanitario responsabile dell’assistenza infermieristica”; art. 2:L’assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si realizza attraverso interventi specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecnico-scientifica, gestionale, relazionale ed educativa.”; art. 7: “L’infermiere orienta la sua azione al bene dell’assistito di cui attiva le risorse sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile, in particolare, quando vi sia disabilità, svantaggio, fragilità”; art. 11: “L’infermiere fonda il proprio operato su conoscenze validate e aggiorna saperi e competenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull’esperienza e la ricerca. Progetta, svolge e partecipa ad attività di formazione. Promuove, attiva e partecipa alla ricerca e cura la diffusione dei risultati”; art. 20: “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte”; art. 23: “L’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinché l’assistito disponga di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita”; art. 24: “L’infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti diagnostico-terapeutici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere”; art. 29: “L’infermiere concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell’assistito e dei familiari e lo sviluppo della cultura dell’imparare dall’errore. Partecipa alle iniziative per la gestione del rischio clinico”; art. 32: “L’infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l’espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni”; art. 35: “L’infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l’importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale”; art. 41: “L’infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori di cui riconosce e valorizza lo specifico apporto all’interno dell’équipe”; art. 44: “L’infermiere tutela il decoro personale ed il proprio nome. Salvaguarda il prestigio della professione ed esercita con onestà l’attività professionale”

[16] In estrema sintesi diagnosi infermieristica è un giudizio clinico-assistenziale descrittivo delle risposte/reazioni del paziente (e/o della famiglia) a problemi di salute presenti o potenziali, formulato in base a un sistematico processo di raccolta e analisi dei dati. In particolare, esprime il giudizio professionale dell’infermiere sulle condizioni del paziente, sulle sue risposte ai trattamenti ricevuti e sulle necessità di assistenza infermieristica; si tratta di un giudizio fondamentale per poi poter calibrare gli interventi infermieristici finalizzati a conseguire i risultati di cui l’infermiere è responsabile, ossia per stendere il piano di assistenza (Carpenito, p. 8); non va confusa con la diagnosi medica, con la quale condivide il nome ma non le finalità. (cfr. Lynda Juall Carpenito-Moyet, Diagnosi infermieristiche. Applicazione alla pratica clinica (5ª ed.), Milano, Casa Editrice Ambrosiana, 2010).

[17] Il piano di assistenza prevede, al momento della stesura, l’elencazione dei Problemi Collaborativi (PC),“certe complicanze che l’infermiere controlla per individuarne la comparsa o una modificazione”. I problemi collaborativi iniziano con il titolo diagnostico Complicanza Potenziale (CP) e la complicanza considerata. Questa denominazione indica che l’obiettivo infermieristico relativo ai problemi collaborativi è la riduzione della gravità di certi fattori o eventi. Gli infermieri gestiscono i problemi collaborativi con interventi di prescrizione medica o infermieristica volti a ridurre al minimo le complicanze di determinati eventi.

[18] La Repubblica, 23 aprile 2007

[19] Per una riflessione sul caso dal punto di vista infermierisitco Cfr. Infermiere responsabile “tout court” anche dell’operato del medico, di Dr. Luigi Pais de Mori in https://www.mysalute.biz/2016/06/08/pais-de-mori-infermiere-responsabile-tout-court-anche-delloperato-medico/

[20] Salva diversa volontà delle parti il debitore, che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.

2 Comments

  • vincenzo ritacco ha detto:

    vorrei sapere se gli ausiliari specializzati che negli ultimi dieci anni hanno contribuito al supporto degli infermieri secondo le turnazioni possono essere inquadrati quali ossa , avendo conseguito la qualifica di ossa a seguito corso di aggiornamento indetto dall’ ente Ospedaliero al difuori delle ore lavorative .
    Sapere se c’ è qualche sentenza in merito o Legge per chiedere la sanatoria in merito
    Ringrazio e resto in attesa di una vostra risposta in merito

    • admin ha detto:

      In materia di pubblico impiego (compreso quello privatizzato) lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di inquadramento legittima il dipendente a pretendere il pagamento delle relative differenze retributive.
      Non è invece possibile agire in giudizio per il riconoscimento della qualifica superiore.

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