Il Regolamento della Comunità Europea 2016/425, in materia di “Dispositivi di protezione individuale“, recepito dall’Italia con il DLGS 19 febbraio 2019, n. 17 (con conseguente modifica delle norme incompatibili contenute nel DLGS n. 81/2008 – T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro), disciplina una materia maneggiata con pochissima cautela da quanti dovrebbero farne applicazione al fine di tutelare il diritto di rilevanza costituzionale, ex art. 32 Cost., alla salute e sicurezza dei lavoratori.
Si è assistito, infatti, tra il febbraio e il marzo del 2020, di pari passo con il progredire dell’emergenza sanitaria, ad un indebolimento delle misure di tutela del personale sanitario, favorito da un tentativo confuso di rimediare, ai diversi livelli di responsabilità, all’assenza di un piano nazionale di intervento e di protocolli locali adeguati ad affrontare la pandemia.
A miglior prova di quanto si afferma, come ricordato dalla Fondazione GIMBE, nell’articolo pubblicato in data 23 marzo 2020 “Coronavirus/Gimbe: allarme contagi per i sanitari, sono il doppio di quelli cinesi”, pubblicato in “Sanità24” – Il Sole 24 ore del 23 marzo 2020, si deve rilevare come l’Italia abbia palesemente ignorato la raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (d’ora in poi OMS) di mettere a punto un Piano pandemico e di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate.
In particolare, il “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale“, predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal Ministero della Salute, è stato aggiornato soltanto sino 10 febbraio 2006 e in quella veste demodé è rimasto nonostante la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale dichiarato con la Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 (“Piano Pandemia influenzale” sito web del Ministero della Salute:”Data di pubblicazione: 13 dicembre 2007 , ultimo aggiornamento 15 dicembre 2016″).
L’indebolimento delle misure di protezione ha interessato, innanzitutto, i DPI per il rischio biologico che, indiscutibilmente, sino al 14 marzo 2020, sono sempre stati considerati, secondo le indicazioni dell’INAIL, i respiratori con filtrante facciale e non invece le mascherine chirurgiche: “Per le attività sanitarie, veterinarie o di laboratorio e, comunque in presenza di pazienti, animali o campioni biologici potenzialmente infetti da microrganismi a trasmissione aerea responsabili di patologie gravi quali meningite, tubercolosi ecc., è raccomandato l’utilizzo di maschere intere con protezione P2, aventi capacità filtrante pari almeno al 95%, perdita di tenuta non superiore al 10% ed efficienza di filtrazione dei microrganismi del 94%. Nell’esecuzione di particolari procedure assistenziali che possono aumentare il rischio di dispersione nell’aria di secrezioni respiratorie (es. broncoscopie, aerosolterapie) è raccomandabile dotarsi di protezioni aventi efficienza filtrante P3” […] Non sono DPI le “mascherine chirurgiche” o “igieniche” sprovviste di filtro di cui alla norma UNI EN 14683, comunemente impiegate in ambito sanitario e nell’industria alimentare. Queste, infatti, appartengono alla categoria dei dispositivi medici e non proteggono l’operatore, bensì il paziente dalle possibili contaminazioni”(https://www.inail.it/cs/internet/attivita/prevenzione-e-sicurezza/conoscere-il-rischio/agenti-biologici/dispositivi-di-protezione-individuale-da-agenti-biologici.html?id1=2443085356137#anchor) provenienti dalla possibile emissione di gocce di saliva emesse dall’operatore che le indossa.
In particolare, le mascherine chirurgiche – disponibili in 4 tipi: I, IR, II e IIR (la lettera “R” indica la resistenza agli spruzzi), con protezione crescente a seconda degli strati filtranti e della conseguente filtrazione batterica, che può arrivare sino al 98% per il tipo IIR – si caratterizzano per l’assenza di una specifica capacità di aderenza al volto, il che non può impedire che il contaminante possa raggiungere le vie respiratorie dell’operatore che le indossa attraverso gli spazi liberi lasciati tra il bordo della maschera e il viso.
I “facciali filtranti”, prodotti conformemente alle norme EN 149 o EN 143 (le maschere con filtro interscambiabile), sono, invece, quasi interamente costituite da un materiale filtrante e possono possedere o meno una valvola di espirazione; la loro funzione, a differenza delle mascherine chirurgiche, è quella di proteggere le vie respiratorie dell’operatore dagli agenti esterni (aerosol solidi o liquidi) e si distinguono in tre categorie, FFP1, FFP2 e FFP3, a seconda della diversa capacità di protezione (con la precisione che soltanto le FFP2 e FFP3 assicurano un’effettiva protezione da microrganismi).
Un’esemplificazione delle differenze tecniche che riguardano la destinazione d’uso, filtrazione, perdita, limitazioni nell’uso e vestibilità della tenuta facciale tra le mascherine chirurgiche e il respiratore con filtrante facciale si ricava dall’immagine in evidenza che ne riassume le diverse caratteristiche tecniche (Fonte: Center of Disease Control and Prevention di Atlanta).
In questo stesso senso, la Circolare n. 15 del 27.06.2012 della Direzione Generale delle Relazioni Industriali e di Rapporti di Lavoro del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in una comunicazione inviata a diversi soggetti istituzionali, tra cui tutte le ASL per il tramite degli Assessorati alla Sanità delle Regioni, chiariva che i DPI per la protezione specifica delle vie respiratorie da agenti biologici aerodispersi fossero, per l’appunto, i facciali filtranti, richiamando all’uopo le più accreditate fonti nazionali e internazionali.
Coerentemente alla normativa vigente (vedi nota 1), in piena “emergenza Coronavirus”, la Circolare della Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero della Salute del 22.02.2020, n. 5443 – “COVID-2019. Nuove indicazioni e chiarimenti”, nel rispetto della normativa comunitaria in materia, raccomandava specificamente che “Il personale sanitario in contatto con un caso sospetto o confermato di COVID-19 debba indossare DPI adeguati, consistenti in filtranti respiratori FFP2 (utilizzare sempre FFP3 per le procedure che generano aerosol), protezione facciale, camice impermeabile a maniche lunghe, guanti”.
Com’è spiegabile, quindi, che da un giorno all’altro, dopo la pubblicazione del Rapporto ISS Covdi-19, n. 2/2020, le mascherine chirurgiche (di cui, peraltro, alcuni operatori sono rimasti sprovvisti o sono stati costretti ad utilizzare per giorni), o peggio quelle “sostitutive” con scarsa o nulla capacità filtrante, pur non essendo DPI, siano improvvisamente divenute efficaci strumenti di protezione, addirittura in contesti in cui il rischio di contagio è risultato elevato, se non altissimo?
Per avere risposta, è necessario risalire alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) del 27 febbraio 2020, “Rational use of personal protective equipment for coronavirus disease 2019 (COVID-19),” in cui si legge che le scorte mondiali di DPI, ma anche di mascherine chirurgiche, fossero assolutamente insufficienti per fronteggiare l’emergenza pandemica di COVID-19 (“Disruptions in the global supply chain of PPE”, p. 1).
Proprio le difficoltà di approvvigionamento dei respiratori facciali hanno condotto all’equiparazione forzata tra mascherine chirurgiche e DPI per le vie respiratorie operata dal Governo italiano, dapprima, con il D.L. n. 9 del 2 marzo 2020 quindi con il D.L. n. 18 del 17.03.2020– cosiddetto “Cura Italia”.
E, infatti, l’art. 34, comma 3, del D.L. n. 9/2020 ha previsto che “In relazione all’emergenza di cui al presente decreto, in coerenza con le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e in conformità alle attuali evidenze scientifiche, è consentito fare ricorso alle mascherine chirurgiche, quale dispositivo idoneo a proteggere gli operatori sanitari; sono utilizzabili anche mascherine prive del marchio CE previa valutazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità”.
Con l’art. 16, comma 1, del D.L. 18/2020, si è inteso rafforzare il concetto: “Per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull’intero territorio nazionale, per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all’articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n.81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall’articolo 34, comma 3, del decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9”.
Le mascherine chirurgiche, che DPI non sono (come si evince, qualora nella confusione la differenza sfuggisse, dal precedente art. 15: “è consentito produrre, importare e immettere in commercio mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale in deroga alle vigenti disposizioni”), lo sono diventate quindi provvisoriamente per via dell’emergenza, con buona pace della sicurezza del personale sanitario.
Il tutto, in palese contrasto con la finalità dei DPI di assicurare agli operatori una reale e non meramente ipotetica protezione dal rischio biologico, specie nell’attuale contingenza operativa caratterizzata, tra l’altro, dalla manifesta incertezza scientifica [2] circa il grado di probabilità di trasmissione del virus da infetti asintomatici che avrebbe dovuto suggerire di rafforzare, in forza del principio di precauzione, le misure di sicurezza.
Di pari passo con le iniziative del Governo, l’ISS, trasponendo il contenuto delle raccomandazioni dell’OMS del 27 febbraio 2020 (pp. 3 e ss.) e richiamando, a scanso di equivoci, proprio l’art. 34, comma 3 del DL n. 9/2020, ha raccomandato, nei diversi contesti di lavoro (per la verità solo alcuni) e con riferimento ai diversi destinatari (operatori/pazienti), di ottimizzare l’utilizzo dei DPI e dei presidi (divenuti per decreto legge la stessa cosa) secondo indicazioni che appaiono, a giudizio di chi scrive, oltre che parzialmente inadeguate, esageratamente schematiche e confuse, favorendo inconsapevolmente una sorta di “taratura al ribasso” da parte dei protocolli regionali e aziendali che vi si sono pedissequamente adeguati.
Dall’esame delle tabelle contenute nel rapporto dell’ISS, in cui si confondono, seguendo evidentemente le anzidette indicazioni normative, DPI e dispositivi medici (pp. 6 e ss.), si ricava, infatti, che l’utilizzo dei primi sia espressamente indicato soltanto per le procedure che, in Stanza di pazienti COVID-19, generano aerosol (FFP2 o FFP3) e di esecuzione del tampone oro faringeo (FFP2, se disponibile), senza prescriverne invece l’utilizzo in quegli stessi contesti laddove sia necessario prestare continuamente assistenza diretta o in molteplici altri contesti operativi (si pensi, ma solo per fare un esempio, all’attività chirurgica) in cui il rischio biologico, già elevato, è divenuto altissimo anche per le note criticità legate alla mancata esecuzione sistematica dei test di conferma (i tamponi) per tutti gli operatori sanitari e per i pazienti.
Eppure, anche in ragione dell’inefficacia – ben sottolineata dall’ISS (p. 4) – dei DPI quale misura di protezione del lavoratore, quando non siano “inseriti all’interno di un più ampio insieme di interventi che comprende controlli amministrativi e procedurali, ambientali, organizzativi e tecnici nel contesto assistenziale sanitario” (p. 4), le sopra riferite esigenze di massima cautela avrebbero comunque dovuto suggerire di considerare che “la mascherina chirurgica non conferisce sufficiente protezione ai soggetti sani che vengono a contatto con un soggetto infetto” (vedi rilievi del dott. Claudio Beltramello in “Coronavirus/ Gimbe: allarme contagi per i sanitari, sono il doppio di quelli cinesi” a cura della Fondazione GIMBE, pubblicato in “Sanità24 del Sole 24 ore il 23.03.2020).
Tanto più quando gli operatori (ci si riferisce ai più fortunati che ne hanno potuto disporre), per la nota insufficienza degli approvvigionamenti, sono stati (come tuttora sono) costretti ad utilizzarle per l’intero turno di servizio (nonostante ne sia raccomandato un utilizzo limitato a 4 ore) o, com’è avvenuto, addirittura per giorni interi (in violazione delle stesse prescrizioni dell’ISS, cfr. rapporto p. 11).
Ma, soprattutto, tanto più quando le misure di gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro (valutazione del rischio, formazione, informazione e addestramento, sorveglianza sanitaria), prescritte dal DLGS n. 81/2008, si siano rivelate inadeguate e/o comunque siano state adottate con gravissimo ritardo (non dimentichiamo, infatti, che l’emergenza nazionale veniva deliberata il 31 gennaio 2020).
Un esempio di “taratura al ribasso” è stato offerto dalla Regione Sardegna che negli indirizzi per l’applicazione uniforme dell’art. 7 del D.L. 09.03.2020, n. 14 (norma che prevede che soltanto gli operatori con sintomatologia respiratoria o esito positivo per COVID-19 sospendano l’attività) al personale del Servizio Sanitario della Regione, allegati alla Deliberazione n. 13/24 del 17.03.2020 (ma pubblicate il 20.03), non soltanto ha ridotto drasticamente le misure di protezione suggerite dall’ISS, ma, soprattutto, non ha fatto alcun cenno alla necessità di porre in essere tutti quegli interventi di carattere ambientale, organizzativo e tecnico nel contesto assistenziale sanitario specifico (p. 1, ultimo, cpv del rapporto), tanto più fondamentali considerate le anzidette difficoltà di approvvigionamento non solo dei DPI ma anche delle mascherine chirurgiche.
Richiamo invero essenziale, come anticipato, considerato che anche l’uso dei DPI (figuriamoci dei presidi, quando non di veri e propri surrogati “fai da te”) può rilevarsi inefficace in assenza dei necessari interventi organizzativi.
Forte è il sospetto, infatti, che in alcuni luoghi di cura, la percentuale “bulgara” di operatori contagiati (ben superiore alla già rilevante media nazionale, pari al 9% del totale delle persone contagiate, percentuale più che doppia rispetto a quella della Cina che si attesta al 3,8%), spesso divenuti, paradossalmente, inconsapevoli veicoli di trasmissione del virus, sia stata favorita anche dal mancato o ritardato approntamento delle misure organizzative di accorpamento o separazione e/o trasformazione o adattamento delle strutture e delle procedure operative all’esigenza emergenziale e/o all’inadeguata attività di formazione, informazione e addestramento del personale e/o all’omessa o ritardata adozione delle misure di sorveglianza sanitaria.
Rientrando nel campo dei DPI/misure di protezione, la “revisione” delle indicazioni dell’ISS è avvenuta eliminando, ad esempio (l’elencazione non è esaustiva), dalla Tabella 1 (Stanza di pazienti COVID-19, p. 3), le raccomandazioni finalizzate a ridurre al minimo il numero di operatori sanitari e di addetti alle pulizie esposti e ad assicurare la formazione, informazione e addestramento specifici; dalla Tabella 2 (p. 4): nelle aree di transito dei pazienti: l’indicazione circa l’uso delle mascherine chirurgiche e guanti monouso; nelle aree di triage: le raccomandazioni di ridurre al minimo il numero di operatori sanitari e di addetti alle pulizie esposti; di assicurare la formazione, informazione e addestramento specifici; di utilizzare la vetrata interfono citofono e le mascherine chirurgiche; di garantire le condizioni di isolamento in stanza chiusa e adeguata ventilazione o di collocazione in area separata dei pazienti con sintomi respiratori; di mantenere comunque la distanza prescritta dai pazienti anche senza sintomi respiratori; nei Laboratori in cui si manipolano campioni respiratori: eliminando l’uso dei DPI, sostituiti da mascherine chirurgiche e altri presidi.
Non si comprende, poi, perché gli indirizzi applicativi, risoltisi sostanzialmente in un copia-incolla mal fatto delle indicazioni dell’ISS, abbiano omesso di considerare ogni contesto lavorativo (tenendo conto, s’intende, delle diverse specificità) come sarebbe stato invece necessario, stante la dimostrata possibilità di entrare in contatto con casi sospetti di COVID-19, anche nelle strutture inizialmente definite, in alcuni casi con ingiustificata fiducia, Covid-free.
E non si comprende, perché il documento dell’ISS contiene raccomandazioni che non hanno né potevano avere alcuna pretesa di completezza per l’ovvia ragione che i contesti operativi assistenziali non sono certo omologabili.
Le condizioni di lavoro del personale del Servizio Sanitario Nazionale, costretto a subire una sospensione delle tutele (l’equiparazione tra DPI e mascherine chirurgiche ne è la miglior prova), laddove sarebbe stato, invece, necessario rafforzarle di fronte al rischio di contrarre l’infezione, appaiono quindi oltremodo critiche e, non desta sorpresa, che insistentemente diverse OO.SS. della Dirigenza Medica e del Comparto abbiano diffidato le aziende sanitarie ad adempiere agli obblighi posti dall’art. 2087 c.c. a presidio della salute e sicurezza dei lavoratori.
Al riguardo, si deve evidenziare che secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione (cfr. ad esempio, ex multis, Cass. civ, sez. lav., ordinanza 26 luglio 2019, n. 20364), l’anzidetta norma “riveste il ruolo di norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v., tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 644; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2491; Cass. 23 settembre 2010, n. 20142; Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742).”
Norma che, come anticipato, di fronte ad una situazione rischio lavorativo elevato, impone di ispirare ogni intervento al principio di massima precauzione, “per il quale, ove le attività socialmente utili ma rischiose incidano su beni di rilevanza primaria quali l’ambiente o la salute umana, si dà, comunque, la necessità di adottare tutte le misure ritenute potenzialmente idonee ad azzerare o contenere gli effetti di tali attività, anche se non interamente dimostrabili – proprio per l’insufficienza o la contraddittorietà dei dati scientifici a disposizione –, né prevedibili con esattezza nella loro portata”(https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1353541107SCORDAMAGLIA2012b.pdf).
L’insopportabile e dilagante retorica dell’eroe in camice o divisa non può impedire di ricordare che si tratti di un principio intangibile.
Avv. Giacomo Doglio
Nota 1 – Norme
Di seguito alcune delle norme del Regolamento CE (si riporteranno soltanto quelle necessarie alla presente indagine), il cui obiettivo (vedi premessa, punto 56) è quello di “assicurare che i DPI sul mercato soddisfino requisiti che offrano un livello elevato di protezione della salute e della sicurezza degli utilizzatori.”
Art. 3 (Definizione), comma 1, lett. a): I DPI sono “dispositivi progettati e fabbricati per essere indossati o tenuti da una persona per proteggersi da uno o più rischi per la sua salute o sicurezza.”
Art. 5 (Requisiti essenziali di salute e sicurezza): “I DPI devono soddisfare i requisiti essenziali di salute e di sicurezza, di cui all’allegato II, ad essi applicabili”.
Art. 15 (dichiarazione di conformità UE): “La dichiarazione di conformità UE attesta il rispetto dei requisiti essenziali di salute e di sicurezza applicabili di cui all’allegato II”.
Art. 18 (Categorie di rischio dei DPI), comma 1: “I DPI sono classificati secondo le categorie di rischio di cui all’allegato I”
Allegato I (Categorie di rischio dei DPI) – Categoria III: “La categoria III comprende esclusivamente i rischi che possono causare conseguenze molto gravi quali morte o danni alla salute irreversibili con riguardo a quanto segue […] lett. c Agenti biologici nocivi.”
Allegato II (Requisiti essenziali di salute e sicurezza), comma 1: “I requisiti essenziali di salute e di sicurezza elencati nel presente regolamento sono inderogabili”.
Allegato II, § 3 (Requisiti supplementari specifici per rischi particolari); 3.10. Protezione dalle sostanza…per la salute e dagli agenti biologici;
3.10.1 (Protezione respiratoria): “I DPI destinati alla protezione dell’apparato respiratorio devono poter fornire all’utilizzatore aria respirabile quando è esposto ad un’atmosfera inquinata e/o ad un’atmosfera con una concentrazione di ossigeno inadeguata. L’aria respirabile fornita all’utilizzatore dal DPI deve essere ottenuta con mezzi adeguati, ad esempio mediante il filtraggio dell’aria inquinata attraverso il DPI o mediante approvvigionamento da una fonte esterna non inquinata. I materiali costitutivi e gli altri componenti di tali tipi di DPI devono essere scelti o progettati e strutturati in modo tale da garantire una respirazione e un’igiene respiratoria adeguate per il periodo d’uso del dispositivo nelle condizioni prevedibili di impiego”.
3.10.2 (Protezione dai contatti epidermici o oculari): “I DPI destinati a evitare contatti superficiali di tutto il corpo o di una parte di esso con sostanze e miscele pericolose per la salute o con agenti biologici nocivi devono impedire la penetrazione o la permeazione di tali sostanze e miscele e agenti attraverso l’involucro di protezione nelle condizioni prevedibili di impiego cui tali DPI sono destinati. A tal fine, i materiali costitutivi e gli altri componenti di questi tipi di DPI devono essere scelti o concepiti e combinati in modo tale da garantire per quanto possibile una chiusura ermetica totale che ne consenta, se necessario, un uso quotidiano eventualmente prolungato o, nel caso ciò non sia possibile, una chiusura stagna limitata con conseguente limitazione della durata di impiego. Qualora, per la loro natura e per le condizioni prevedibili di impiego, talune sostanze e miscele pericolose per la salute o agenti biologici nocivi avessero un potere di penetrazione elevato e limitassero quindi il tempo di protezione offerto dai DPI, questi ultimi devono essere sottoposti a prove di tipo convenzionale che permettano di classificarli in funzione delle loro prestazioni. I DPI considerati conformi alle specifiche di prova devono recare una marcatura che indichi in particolare i nomi o, in assenza dei nomi, i codici delle sostanze utilizzate per le prove, nonché il tempo di protezione convenzionale corrispondente. Il fabbricante deve inoltre fornire, nelle istruzioni, il significato eventuale dei codici, la descrizione particolareggiata delle prove convenzionali e qualsiasi dato utile alla determinazione della durata massima ammissibile di impiego del DPI nelle diverse condizioni di impiego prevedibili”.
Il DLGS n. 81/2008, come modificato dal DLGS n. 17/2019, ha stabilito che i DPI (art. 76, comma 2 e 3) “devono essere conformi alle norme di cui al regolamento UE 2016/425 e devono inoltre: a) essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare di per sé un rischio maggiore; b) essere adeguati alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro; c) tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore; d) poter essere adattati all’utilizzatore secondo le sue necessità”.
Il datore di lavoro (art. 77 – Obblighi del datore di lavoro) “ai fini della scelta dei DPI (comma 1): a) effettua l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi; b) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla lettera a), tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI; c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d’uso fornite dal fabbricante a corredo dei DPI, le caratteristiche dei DPI disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate alla lettera b); d) aggiorna la scelta ogni qualvolta intervenga una variazione significativa negli elementi di valutazione.
Il datore di lavoro (comma 4), tra l’altro: “fornisce istruzioni comprensibili per i lavoratori” (lettera c); “informa preliminarmente il lavoratore dei rischi dai quali il DPI lo protegge” (lettera e);” “rende disponibile nell’azienda ovvero unità produttiva informazioni adeguate su ogni DPI” (lettera f); “assicura una formazione adeguata e organizza, se necessario, uno specifico addestramento circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei DPI” (lettera h).
il comma 5 prevede poi che “l’addestramento è indispensabile”: per ogni DPI che, ai sensi del decreto legislativo del regolamento cit, appartenga alla terza categoria (ossia proprio per i DPI finalizzati alla protezione da agenti biologici nocivi).
La disciplina speciale relativa all’esposizione ad Agenti biologici è contenuta nelle norme del titolo X del DLGS n. 81/2008 (artt. 266-278) cui si rinvia.
Nota 2
Nella pagina web dell’ISS (https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/trasmissione-prevenzione-trattamento) si legge che “L’OMS è a conoscenza di una possibile trasmissione del virus da persone infette ma ancora asintomatiche e ne sottolinea la rarità. In base a quanto già noto sui coronavirus (ad es. MERS-CoV), sappiamo infatti che l’infezione asintomatica potrebbe essere rara e che la trasmissione del virus da casi asintomatici è molto rara. Sulla base di questi dati, l’OMS conclude che la trasmissione da casi asintomatici probabilmente non è uno dei motori principali della trasmissione del nuovo coronavirus 2019-nCoV”.