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L’infortunio mortale in itinere recentemente occorso ad una giovane infermiera (smontante da un secondo turno notturno consecutivo), che ha ricevuto ampio risalto mediatico, ha imposto all’attenzione generale il tema, purtroppo non nuovo, dei rischi per la sicurezza del personale sanitario tenuto ad operare nei turni notturni per garantire l’assistenza nelle 24 ore.

Rischi spesso sottovalutati, ove si consideri che non infrequentemente, per via della nota insufficienza delle dotazioni organiche, l’organizzazione del lavoro pretende un impegno orario e un carico di lavoro non consentito dalle disposizioni legislative e contrattuali vigenti.

La presente indagine deve necessariamente prendere le mosse dall’esame del quadro normativo.

Il DLGS 08.04.2003, n. 66, di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, definisce “periodo notturno”“il periodo di almeno 7 ore comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque” (art. 1, comma 2, lett. d) e “lavoratore notturno”1) qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; 2) qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti  collettivi  di  lavoro.  In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga per almeno tre ore lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all’anno; il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale” (art. 1, comma 2, lett. e).

Il “periodo notturno” comprende, quindi, l’intero orario di servizio che include l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino, e così, ad esempio, gli orari 22-05, 23-06, 24-07, ma anche qualsiasi orario di maggiore di durata come accade nei turni 20-08, 21-09, 21-07, 22-07, ecc., ampiamente utilizzati nell’organizzazione delle aziende sanitarie.

La prima questione che si pone è se la contrattazione collettiva nazionale applicata alla dirigenza (CCNL Area sanità 19.12.2019) e al personale del comparto (CCNL Comparto sanità 21.05.2018) contenga la specifica disciplina richiesta dall’art. 1, comma 2, lett. e) del DLGS n. 66/2003 per poter definire come “lavoratori notturni” gli operatori sanitari che svolgano parte del loro tempo di lavoro nel periodo notturno.

L’esame complessivo della disciplina contrattuale consente di rispondere affermativamente.

Il CCNL dell’Area Sanità (art. 29) e il CCNL del personale del Comparto Sanità  (art. 30) stabiliscono, infatti, che “svolgono lavoro notturno”, rispettivamente, “i dirigenti” e “i lavoratori” “tenuti ad operare su turni a copertura delle 24 ore”,  regolando espressamente quell’impegno, non solo attraverso il rinvio al DLGS n. 532/1999 e al DLGS n. 66/2003, ma anche con specifiche disposizioni in materia di orario di lavoro (dirigenza: art. 24; comparto: art. 27), servizio di guardia (dirigenza: art. 26), pronta disponibilità (dirigenza: art. 27;  comparto: art. 28), lavoro straordinario (dirigenza: art. 30; comparto: art. 31), indennità per il servizio notturno (dirigenza: art. 98), indennità per particolari condizioni di lavoro (comparto: art. 86).

I criteri generali relativi all’articolazione dell’orario di lavoro (anche notturno) sono, invece, adottati da ogni Azienda sanitaria, in esito all’eventuale Confronto con i soggetti sindacali (dirigenza: art. 5; comparto: art. 5) e sono quindi sottratti alla negoziazione collettiva.

Non v’è dubbio, quindi, che i dirigenti e il personale del comparto assegnati a servizi/turni notturni per garantire la continuità assistenziale h24, in base all’articolazione oraria aziendale, rientrino a pieno titolo nella definizione di lavoratori notturni, e ciò, in quanto essi svolgono, secondo le previsioni contrattuali sopra richiamate, una parte significativa del loro orario di lavoro durante il periodo notturno.

Non appare, quindi, condivisibile il parere dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, espresso nella nota prot. 1050 del 26.11.2020, secondo cui, quando la disciplina collettiva non individui anche il numero delle ore giornaliere di lavoro da effettuarsi durante il periodo notturno e delle giornate necessarie per rientrare nella categoria di “lavoratore notturno”, potrà essere considerato tale soltanto “colui il quale svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero durante il periodo notturno per almeno ottanta giorni lavorativi all’anno”. 

Tale interpretazione contrasta, infatti, con la lettera dell’art. 1, comma 2, lett d) del DLGS n. 66/2003 che in nessun modo pretende dalla contrattazione collettiva la precisa indicazione del numero delle ore e dei giorni di lavoro notturno per rientrare nella categoria.

Del resto, per quel che qui interessa evidenziare, in qualsiasi Azienda/Ente del Servizio Sanitario Nazionale, il personale assegnato ai servizi/turni notturni svolge spesso un orario largamente eccedente quello minimo preteso, in assenza di negoziazione collettiva, dall’art. 1, comma 2, lett. e) del DLGS n. 66/2003 (almeno tre ore per almeno ottanta giorni).

A mero titolo esemplificativo, basterà considerare che un dirigente medico può essere assegnato sino a cinque servizi di guardia notturni (art. 26) e dieci pronte disponibilità mensili (notturne e festive) di dodici ore (art. 27) e che il personale del comparto turnista h24 deve ruotare nell’arco del mese in modo equilibrato nei turni svolti di mattina, pomeriggio e notte (21-7, 22-7, ecc.) in misura pari almeno al 20% in relazione al modello adottato nell’Azienda o Ente (art. 86), oltre all’eventuale impegno aggiuntivo (previsto per alcune categorie di lavoratori) di dodici ore nel servizio di pronta disponibilità (ordinariamente sono previsti mensilmente sei turni notturni e festivi – art. 28)[1].

L’inclusione del personale sanitario nella definizione di “lavoratore notturno” è decisiva, al fine dell’applicazione del limite massimo giornaliero delle ore di lavoro notturno[2].

L’art. 13, comma 1, del DLGS n. 66/2003 stabilisce, infatti, che “L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore, salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite”.

L’art. 17 comma 1 del medesimo DLGS ammette possibili deroghe alle disposizioni all’art. 13, con la precisazione che le stesse[3] “possono essere ammesse soltanto a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata” (art. 17 comma 4).

Ancora una volta, le interpretazioni di fonte ministeriale non appaiono convincenti.

In particolare, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Circolare n. 8 del 03.03.2005, p. 25), con una inaccettabile interpretazione creativa dell’art. 13, comma 1, ha osservato che, in realtà, il suddetto limite, “costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa, salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi anche aziendali di un periodo più ampio sul quale applicare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più̀ occasioni adoperato l’arco settimanale quale parametro per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del DLGS n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio”   

Allo stesso modo, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota prot. n. 1438 del 14 febbraio 2019, nel concordare con l’interpretazione ministeriale, ha osservato che “il parametro temporale da prendere a riferimento per calcolare la durata media dell’orario di lavoro notturno (8 ore nelle 24) è la settimana lavorativa intesa come un periodo di 6 giorni”. L’INL ha motivato tale precisazione con la necessità di evitare trattamenti differenziati: “un lavoratore con settimana di 5 giorni non potrebbe svolgere lavoro straordinario perché la media raggiunge già il limite massimo con il completamento dell’ordinario orario di lavoro (40:5=8). Nel caso, invece, di una settimana articolata su 6 giornate di lavoro, il lavoratore notturno potrebbe effettuare lavoro straordinario sino al limite delle 48 ore settimanali in quanto, in questo caso, la media giornaliera sarebbe rispettosa del limite legale (48:6=8).” 

Seguendo tale interpretazione, al datore di lavoro sarebbe, quindi, sostanzialmente permesso di dilatare quel limite temporale, il che contrasta però con il precetto normativo che pone un espresso divieto (“non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore”), individuando nel settore della panificazione non industriale l’unica ipotesi in cui la media deve essere riferita alla settimana lavorativa (cfr. art. 13 comma 5)[4].

Si tratta, a ben vedere, di un’interpretazione contra legem, considerato che l’anzidetta disposizione normativa, come del resto anche quella sulla durata minima del riposo giornaliero (di 11 ore nell’arco delle 24 ore – art. 7 DLGS n. 66/2003), è finalizzata ad assicurare al lavoratore un’adeguata protezione dai gravi e scientificamente dimostrati rischi per la sicurezza e la salute che possono essere causati dalle tensioni fisiche e/o mentali, dalla mancanza di riposo e dall’alterazione del ritmo sonno veglia[5].

Pare, quindi, corretto ritenere che il limite giornaliero fissato dalla norma sia modificabile soltanto in sede di contrattazione, alla stessa stregua, del resto, di quanto previsto dagli artt. 3 e 4 del D.lgs n. 66/2003, norme impropriamente richiamate nella circolare ministeriale proprio perché contengono (anch’esse) un’espressa previsione della possibilità riconosciuta alle parti sociali di riferire la “media” (nella specie della durata massima orario di lavoro settimanale) ad un periodo più ampio rispetto a quello indicato nelle suddette disposizioni.

Così ricostruito il quadro normativo, non v’è chi non veda che un doppio turno 20-08, 21-09, 21-07, 22-07, ecc., in assenza di contrattazione che definisca un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare, come media, il suddetto limite, sia palesemente illecito.

Nell’arco delle 24 ore, i turni consecutivi 20-08 + 20-08 si traducono, infatti, in dodici ore di lavoro notturno all’interno della fascia oraria 0-24 (di cui otto nella fascia oraria 0-8 e quattro nella fascia 20-24[6]) e quindi in una violazione del rapporto di 1/3 che la norma pretende tra ore lavorate e non lavorate entro l’arco temporale di riferimento[7].

Allo stesso modo accade, ad esempio, nei turni consecutivi 21-09 + 21-09, 21-07 + 21-07, 22-07 + 22-07, nei quali le ore di lavoro notturno nel periodo di riferimento sono, rispettivamente, dodici, dieci e nove, e, quindi, sempre superiori, rispetto a quelle consentite[8].

L’estensione “ministeriale” dell’arco temporale di riferimento da ventiquattro ore ad una settimana, viceversa, avrebbe l’effetto di escludere che il doppio turno di lavoro consecutivo possa costituire di per sé una violazione della normativa vigente.

@giacomodoglio

 

 

 

[1] Numeri e percentuali che nella prassi vengono spesso superati.

[2] “Solo ai lavoratori notturni individuati nei termini sopra chiariti trova applicazione il limite massimo giornaliero di otto ore di lavoro di cui all’art. 13, comma 1, e non già qualsivoglia lavoratore che svolga di notte una parte del suo orario di lavoro” (cfr. nota Ministero lavoro prot. n. 1050 del 26 novembre 2020 che richiama la nota Ministero lavoro prot. n. 388 del 12 aprile 2005).

[3] L’art. 17, comma 1, prevede che “la norma possa essere derogata mediante contratti collettivi stipulati a livello nazionale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. L’art. 17, comma 2, stabilisce che “in mancanza di disciplina collettiva, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ovvero, per i pubblici dipendenti, il Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, su richiesta delle  organizzazioni sindacali    nazionali    di    categoria    comparativamente più rappresentative o delle associazioni nazionali di categoria dei datori di lavoro firmatarie dei  contratti  collettivi  nazionali  di lavoro, adotta un decreto, sentite le  stesse  parti,  per  stabilire deroghe”, ad esempio, con riferimento (lett.  c) “alle attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta: 1) di servizi relativi all’accettazione, al trattamento o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri”.

[4] In questo stesso senso anche autorevole dottrina: “una traduzione possibile […] è quella che individua nelle 8 ore il limite giornaliero legale del lavoro notturno, salvo che i contratti collettivi (di qualsiasi livello) non trasformino tale limite in un limite medio individuando un periodo di riferimento composto da più giornate (ad es. una settimana). È una conclusione alla quale si giunge anche sulla base del raffronto tra il comma 1 e la norma speciale dettata nel comma 5 dello stesso articolo, la quale specifica che per lo specifico settore della panificazione artigianale (cioè non industriale), la media va riferita ex lege, senza necessità di interventi modificativi della contrattazione collettiva, alla settimana lavorativa” (cfr. Diritto e Processo del lavoro e della Previdenza sociale, a cura di Santoro-Passarelli, p. 1267, UTET giuridica 2020)

[5] Per tale ragione, il DLGS n. 66/2003 prevede che alcune categorie di lavoratori siano esonerate dal lavoro notturno (cfr. art. 11) e che il Medico competente (art. 14) debba effettuare controlli preventivi e periodici, almeno ogni due anni, volti a verificare l’assenza di controindicazioni al lavoro notturno, provvedendo ad assegnare al turno diurno quei lavoratori che risultassero inidonei alla prestazione di lavoro notturno (art. 15).

[6] Sebbene il periodo di lavoro notturno comprenda, per definizione, l’intero orario di servizio che include la fascia 24-05, si ritiene che nell’ipotesi considerata (20-08 + 20-08), ai fini del calcolo, si debba necessariamente conteggiare anche l’intervallo 20-24 (nel secondo turno, infatti, la prestazione prosegue dopo le 24 sino alle 8 del giorno successivo).

[7] Si è preso come riferimento, prudenzialmente, l’arco temporale 0-24, perché se si dovesse calcolare il tempo di lavoro notturno, entro l’arco di 24 ore, con decorrenza dall’inizio della prestazione (ore 20), sarebbe evidentemente sufficiente un unico turno 20-08 (12 ore) per configurare una violazione.

[8] Valgono evidentemente le medesime considerazioni esposte nelle note 5 e 6: se si calcolasse il tempo di lavoro notturno, entro l’arco delle 24 ore, con decorrenza dall’inizio della prestazione (21 o 22), i risultati sarebbero, infatti, gli stessi (negli esempi fatti, rispettivamente, 12, 10, 9 ore).

 

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