Come già riferito nel precedente articolo pubblicato il 24 marzo u.s., il sistema di prevenzione e protezione della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, operante anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o tecniche preesistenti e collaudate, impone di predisporre tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. civ, sez. lav., ordinanza 26 luglio 2019, n. 20364).
Di fronte ad una situazione rischio lavorativo elevato, il datore di lavoro deve ispirare ogni intervento al principio di precauzione, “per il quale, ove le attività socialmente utili ma rischiose incidano su beni di rilevanza primaria quali l’ambiente o la salute umana, si dà, comunque, la necessità di adottare tutte le misure ritenute potenzialmente idonee ad azzerare o contenere gli effetti di tali attività, anche se non interamente dimostrabili – proprio per l’insufficienza o la contraddittorietà dei dati scientifici a disposizione –, né prevedibili con esattezza nella loro portata” (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1353541107SCORDAMAGLIA2012b.pdf).
Quando il rischio riguardi, infatti, un bene di rilevanza primaria, qual è la salute, infatti, l’assenza di certezza scientifica non può in nessun modo costituire una giustificazione per la mancata o la tardiva adozione di misure adeguate al contenimento della situazione di pericolo, tanto più, si deve aggiungere, quando non sia possibile astenersi dallo svolgimento dell’attività lavorativa. Anzi, al contrario, proprio l’esistenza di un pericolo reale (e non solo potenziale), in attesa di disporre di ulteriori risultati dalla ricerca scientifica, impone un approccio alla gestione del rischio che tenga conto – affinché non sia inaccettabile – di quale impatto possa avere la carenza o l’insufficienza dei mezzi di protezione della salute dei lavoratori coinvolti.
Il primo tema delle presenti osservazioni riguarda, per l’appunto, in che modo l’ISS, nelle proprie raccomandazioni, abbia inteso fare applicazione del principio di precauzione[1].
Un argomento, invero, di enorme rilevanza, in considerazione del fatto che proprio i dati comunicati dall’Istituto Superiore della Sanità documentano un’elevatissima percentuale di infetti tra il personale sanitario, superiore addirittura al doppio, nel momento in cui si scrive, rispetto a quelli verificatasi in Cina (oltre il 9% rispetto a circa il 4%).
In particolare, nel Bollettino dell’ISS “Epidemia Covid-19” del 26.03.2020 si legge (p.11) che “sono stati diagnosticati 6.414 casi tra operatori sanitari (età mediana 49 anni, 35% di sesso maschile), circa il 9% dei casi segnalati. È evidente l’elevato potenziale di trasmissione in ambito assistenziale di questo patogeno”.
Nelle indicazioni ad interim aggiornate al 28.03.2020, l’Istituto Superiore della Sanità (cfr. pp. 3 e 17-18), ha precisato che alcune istituzioni (CDC ed ECDC) hanno raccomandato in alcuni casi l’utilizzo di Filtranti Facciali (FFP) per l’assistenza diretta ai casi COVID-19, proprio sulla base del principio di precauzione, “pur in assenza di evidenze conclusive circa la possibilità di trasmissione del virus per via aerea in casi non sottoposti a procedure in grado di generare aerosol”.
Proprio sulla base di tale premessa, l’ISS, sia pure con grave ritardo (il documento del CDC è, infatti, antecedente alle indicazioni ad interim del 14.03), ha raccomandato di estendere l’uso dei DPI (per la verità solo i FFP2) anche in contesti operativi diversi rispetto a quelli inizialmente indicati (cfr. tabelle del rapporto ISS Covid-19 del 14.03.2020).
Un passo avanti certo, ma assolutamente insufficiente considerato che proprio in ragione “dell’assenza di evidenze conclusive circa la possibilità di trasmissione del virus per via aerea” e all’ormai riferita possibilità di trasmissione del virus da parte di infetti asintomatici (non rientranti nella categoria dei “sospetti”), il principio di precauzione avrebbe dovuto giustificarne l’estensione ad un maggior numero di contesti e non già un modesto allargamento della categoria dei beneficiari. Rispetto al primo rapporto, infatti, vi sono stati inclusi soltanto gli operatori sanitari preposti all’assistenza diretta ai pazienti Covid-19 in contesti assistenziali in cui sono concentrati molti soggetti infetti, gli operatori degli ambulatori preposti all’esame obiettivo di pazienti con sintomi respiratori, gli operatori preposti all’assistenza a domicilio in contesti assistenziali omologabili a quelli ospedalieri ove siano concentrati pazienti con Covid-19.
Ma v’è di più.
L’ISS non soltanto si è limitato a circoscrivere l’ambito di utilizzo dei DPI, peraltro senza nemmeno specificare quali essi siano (si ricava soltanto che non possano considerarsi tali le mascherine chirurgiche nonostante la nota equiparazione normativa ex art. 34, comma 3 DL 2 marzo 2020, n. 9 e art. 16 DL 17 marzo 2020, n. 19), ma addirittura non ha raccomandato l’uso generalizzato delle mascherine chirurgiche in tutti quei contesti in cui non sia espressamente suggerita l’adozione dei DPI. Lo ha fatto, peraltro, in modo contraddittorio, dopo aver raccomandato la necessità di “far sempre indossare una mascherina chirurgica al caso sospetto/probabile/confermato COVID-19 durante l’assistenza diretta da parte dell’operatore”.
Considerato, infatti, l’attuale contesto, caratterizzato dai numerosi focolai all’interno delle strutture ospedaliere (e non solo) e dalla mancata esecuzione sistematica dei tamponi, com’è possibile non considerare i pazienti e gli stessi operatori non sottoposti al test come “sospetti”?
Sotto il primo profilo, si deve ancora una volta precisare come, proprio nel documento del CDC[2] del 10 marzo del 2020 citato dall’ISS, le misure alternative ai Filtranti Facciali siano indicate quale possibile alternativa soltanto in ragione delle difficoltà di approvvigionamento dei DPI (”in times of shortages, alternatives to N95 respirators should be considered, including other classes of filtering facepiece respirators, elastomeric half mask and full facepiece air purifying respirators, powered air puryfying respirators where feasible”). Tra le diverse opzioni, le mascherine chirurgiche vengono menzionate soltanto nell’ultima parte delle raccomandazioni e con riferimento alle ipotesi in cui i Filtranti Facciali non siano disponibili.
Si deve, altresì, rilevare che l’ISS, nel raccomandare l’utilizzo dei Filtranti Facciali, non abbia indicato quali siano i più adatti allo specifico contesto operativo. Nelle tabelle, in particolare, si indicano i FFP3 o i FFP2 quasi fossero alternativi, mentre essi assicurano, invece, un diverso grado di protezione (una maschera FFP2, ad esempio, deve avere una perdita di tenuta totale verso l’interno non superiore al 8% mentre la FFP3 non superiore al 2%).
Analoga superficialità è riscontrabile con riferimento all’indicazione relativa all’utilizzo delle mascherine chirurgiche, considerato che le uniche che assicurano una protezione contro gli spruzzi sono quelle di tipo R. L’ISS, invece, sebbene scriva che i presidi di tipologia IIR siano quelli preferibili, finisce poi per omologarle in quanto (senza specificare quali) “rappresentano una protezione sufficiente nella maggior parte dei casi” e sono “in grado di proteggere l’operatore che le indossa da schizzi e spruzzi“.
Al riguardo, si deve precisare come le maschere facciali ad uso medico, conformi alla norma europea UNI EN 14683:2019 siano classificate in due tipi, I e II, in ragione della minore o maggiore efficienza batterica, con l’ulteriore variante IIR che indica la resistenza agli spruzzi (che quelle I e II non garantiscono).
Sotto il secondo profilo, si deve ulteriormente contestare l’omessa indicazione della necessità di utilizzare i Filtranti Facciali o, in alternativa, laddove i DPI non fossero disponibili, di mascherine chirurgiche (di tipologia IIR e a scalare, in caso di indisponibilità delle prime, quelle di tipo II e I), in ogni ipotesi in cui l’operatore si trovi a contatto con pazienti, anche non sintomatici e negativi (che non abbiano eseguito il tampone), in qualsiasi struttura (sia essa ospedaliera o ambulatoriale), nel territorio, in ambulanza ovvero altro mezzo di trasporto, in laboratorio, ecc.
Così come appare sorprendente l’omessa indicazione circa l’uso nei medesimi contesti di guanti, occhiali di protezione o occhiali a mascherina/visiera, camici idrorepellenti.
Raccomandazioni che l’applicazione del principio di precauzione avrebbe dovuto imporre di formalizzare per contenere il gravissimo rischio di esposizione in cui incorrono gli operatori sanitari, così come dimostrato dall’anomala percentuale di contagi.
Ancora più sorprendente, se possibile, appare l’omessa indicazione circa la necessità di utilizzare le mascherine chirurgiche nelle aree di transito e trasporto interno di pazienti (reparti, corridoi), triage durante lo screening preliminare che non comporti contatto diretto con il paziente, ambulanze o mezzi di trasporto nel caso in cui l’operatore si limiti alla guida del mezzo che trasporta un paziente sospetto o confermato, allocato in posto separato, o nei casi in cui il paziente senza sintomi respiratori si trovi nell’area triage o in ambulatorio oppure sosti in sale d’attesa o accettazione (addirittura senza prescrivere, in queste due ipotesi, che l’operatore debba utilizzare i necessari dispositivi quando i pazienti con sintomi respiratori non siano in grado di tollerarli).
Ed invece, l’ISS ha preferito, ancora una volta, nonostante l’assenza di evidenze scientifiche, e dando prevalenza alla contingente carenza di dispositivi, raccomandare l’adozione di misure di protezione che, per quanto riviste leggermente “al rialzo”, risultano ancora del tutto insufficienti.
Non senza rilievo, peraltro, è la circostanza che, da un lato, l’ISS abbia richiamato i responsabili di struttura, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente a definire una strategia di protezione degli operatori sanitari, finalizzata a declinare “gli schemi forniti” tendendo conto del contesto organizzativo locale (e quindi a valutare l’utilizzo di FFP in relazione alla valutazione del rischio complessivo e individuale anche laddove non siano specificamente raccomandati), dall’altro, non abbia invece ritenuto che fosse indispensabile adattare le indicazioni delle agenzie internazionali alla situazione italiana, applicando il principio di precazione.
Proprio il richiamo agli obblighi del datore di lavoro impone, per ragioni di completezza espositiva, di soffermarsi sul valore che assumono le indicazioni dell’ISS sotto il profilo giuridico.
L’Istituto superiore di sanità, posto sotto la vigilanza del Ministero della Salute, è un ente di diritto pubblico che, in qualità di organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionalesvolge, tra le altre, funzioni di ricerca, promuove programmi di studio e di ricerca, sperimentazioni cliniche, in collaborazione con gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e le aziende ospedaliere, di consulenza e di formazione in materia di salute pubblica.
La natura giuridica e le funzioni svolte dall’ISS consentono agevolmente di comprendere come le indicazioni dell’ente possano valere unicamente quali autorevoli raccomandazioni ma certamente non esonerano il datore di lavoro, che nelle aziende sanitarie si identifica con l’organo di vertice, ossia il Direttore generale, dall’adempiere scrupolosamente agli obblighi di sicurezza (soltanto alcuni delegabili, cfr. artt. 17, 18) posti a suo carico dal DLGS n. 81/2008 e s.m.i.
È, del resto, il medesimo Istituto a ricordarlo, laddove (p. 4) riferisce che le indicazioni contenute nel rapporto “hanno lo scopo di fornire ai responsabili di struttura elementi che, con la collaborazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente possano definire una strategia di protezione degli operatori sanitari. Proprio per questo, le indicazioni contenute nel documento devono trovare una applicazione a livello locale, che le declini tenendo conto anche dei contesti organizzativi e delle specifiche caratteristiche individuali di rischio dei lavoratori. A tale proposito, considerando sempre la necessità di garantire la disponibilità di FFP per tutti gli operatori che eseguono procedure in grado di generare aerosol, si potà valutare l’utilizzo di FFP, in relazione alle specifiche attività e prestazioni erogate, alle modalità di organizzazione del lavoro e ad una valutazione del rischio complessivo e individuale; ad esempio, in: – contesti organizzativi ove vengono concentrati pazienti con infezione COVID-19, soprattutto quando alcuni dei pazienti sono sottoposti a manovre in grado di generare aerosol, e l’utilizzo di FFP può consentire all’operatore di utilizzare lo stesso DPI per un periodo di tempo più lungo; – occasioni in cui sulla base di una attenta valutazione del rischio (caratteristiche individuali dell’operatore, caratteristiche strutturali degli ambienti), si ritenga necessario adottare in via precauzionale una protezione superiore”.
Richiamando (p. 5) il dovere fondamentale del datore di lavoro di assicurarsi che “tutti gli operatori sanitari coinvolti in ambito assistenziale siano opportunamente formati e aggiornati in merito alle modalità e ai rischi di esposizione professionale, alle misure di prevenzione e protezione disponibili, nonché alle caratteristiche del quadro clinico di COVID-19” nonché l’opportunità di adottare anche tutte le necessarie precauzioni aggiuntive, oltre quelle di carattere generale per “preservare sé stessi e prevenire la trasmissione del virus in ambito sanitario e sociosanitario. Tali precauzioni includono l’utilizzo corretto dei DPI e adeguata sensibilizzazione e addestramento alle modalità relative al loro uso, alla vestizione, svestizione ed eliminazione”.
E ancora, precisando (p. 6) che i “DPI devono essere considerati come una misura efficace per la protezione dell’operatore sanitario solo se inseriti all’interno di un più ampio insieme d’interventi che comprenda controlli amministrativi e procedurali, ambientali, organizzativi e tecnici nel contesto assistenziale sanitario”; raccomandando “alle Direzioni regionali, distrettuali e aziendali di effettuare azioni di sostegno al corretto e appropriato utilizzo dei DPI, anche attraverso attività proattive quali sessioni di formazione e visite /audit per la sicurezza, e avvalendosi delle funzioni competenti (referenti per il rischio infettivo, risk manager, Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, medico competente, ecc.)”; ricordando che assume “fondamentale importanza che tutti gli operatori sanitari coinvolti in ambito assistenziale: · siano opportunamente formati e aggiornati in merito ai rischi di esposizione professionale, alle misure di prevenzione e protezione disponibili, nonché alle caratteristiche del quadro clinico di COVID-19, al fine di permettere uno screening degli accessi o dei pazienti ricoverati che permetta una quanto più rapida identificazione dei casi sospetti. Pertanto, la partecipazione a corsi disponibili online dovrebbe essere resa obbligatoria, laddove non siano già state effettuate iniziative di formazione. · Siano edotti sull’importanza di adottare, nell’assistenza a tutti i pazienti, le precauzioni standard, con particolare attenzione all’igiene delle mani prima e dopo ciascun contatto con il paziente, prima di manovre asettiche e dopo esposizione a liquidi biologici o contatto con le superfici vicine al paziente. L’igiene delle mani nell’assistenza a tutti i pazienti rappresenta una protezione importante anche per l’operatore stesso, oltre che per il rischio di infezioni correlate all’assistenza”.
Volendo sintetizzare al massimo, quindi, si ha motivo di ritenere come la difficoltà di approvvigionamento dei DPI non potrà mai costituire una giustificazione per le aziende sanitarie che non abbiano adottato, con la massima tempestività, tutte le misure di natura tecnica, logistico-organizzativa, ambientale, formative/informative, di sorveglianza sanitaria necessarie, in relazione ad ogni contesto operativo e in relazione alle mansioni specifiche svolte, per assicurare ai lavoratori la protezione dal rischio specifico e non generale ed astratto.
Avv. Giacomo Doglio
[1] Il principio di precauzione è espressamente previsto nell’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (cfr., ad es., Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655). Il suo scopo è garantire un alto livello di protezione dell’ambiente attraverso interventi preventivi in caso di rischio. Nella pratica, il campo di applicazione del principio è stato esteso, tra l’altro, anche alla tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale. Il principio di precauzione può essere invocato quando un fenomeno, un prodotto o un processo possano avere effetti potenzialmente pericolosi, individuati tramite una valutazione scientifica e obiettiva, nelle ipotesi in cui questa valutazione non consenta di determinare il rischio con sufficiente certezza. Il ricorso al principio si iscrive, pertanto, nel quadro generale dell’analisi del rischio (che include, oltre la valutazione, la gestione e la comunicazione del rischio) e della gestione del rischio (che attiene alla fase in cui le decisioni devono essere assunte) ed è giustificato quando ricorrano tre condizioni: l’identificazione degli effetti potenzialmente negativi, la valutazione dei dati scientifici disponibili, l’ampiezza dell’incertezza scientifica.
[2] “Interim Infection Prevention and Control: Recommendations for Patients with Suspected or Confirmed Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) in Healthcare Settings” (Data di pubblicazione: 10 marzo 2020) Raccomandazioni sulla prevenzione e il controllo delle infezioni nei pazienti con infezione da COVID-19 sospetta o confermata nel contesto delle strutture sanitarie degli USA.